Oggi il nostro Paese si trova nel momento conclusivo e decisivo di un processo in realtà iniziato circa 30 anni fa, negli anni ’90, quando si dissolse quello che era definito “l’Arco Costituzionale”, ovvero quel sistema di partiti del processo costituente, o loro diretti discendenti, che avevano dato vita alla Costituzione Repubblicana e che in qualche modo garantivano la custodia di quell’impianto costituzionale-istituzionale. Con l’ascesa di soggetti politici che al contrario avevano tutt’altra idea del rapporto tra lo Stato e le Autonomie territoriali, si iniziò dunque a parlare insistentemente di federalismo. Nel 2001, quando il centro-sinistra iniziò a fiutare la sconfitta alle imminenti elezioni poiché il centrodestra si era compattato, pensò (invano) che una sorta di proposta “semi-federalista” avrebbe potuto rovesciare le sorti del voto e attuò la famosa riforma del Titolo V che in realtà iniettava nella Costituzione una buona dose del veleno separatista della Lega Nord. Si trattò di una riforma sciagurata non solo perché introdusse questo regionalismo asimmetrico (art. 116 e art. 117 Cost.) ma anche perché andò ad espungere dal Titolo V il principio di perseguire costituzionalmente lo sviluppo del Mezzogiorno e delle Isole che era prescritto nell’art. 119.

Il terreno sostanziale dello scontro è sempre questo, oggi come negli ultimi 30 anni: l’ideologia che sta sotto al  concetto dell’autonomia differenziata è quella secondo cui c’è una porzione del Paese, il Nord, che corre e che può stare al pari passo dell’Europa e del mondo, e c’è un’altra porzione, il Sud, che non può farlo e quindi andrebbe lasciata a sé stessa, perché potrebbe giovare per “sgocciolamento” dallo sviluppo del Nord, in altre parole staccare i vagoni inutili per consentire alla “locomotiva del Nord” di  correre più veloce. Questa tesi della locomotiva del Nord e dello sgocciolamento trova sbocco in politiche non mirate a unire io paese e a ridurre i divari, ma a considerare questi divari come necessità politica ed economica, e rappresenta la tesi politico-economica su cui si poggia una consistente fetta del panorama politico italiano, non solo di destra, negli ultimi 30 anni.

 

 

Dunque, nell’anno 2018 ecco i famosi pre-accordi, i preliminari d’intesa sull’autonomia differenziata, tra due regioni a guida leghista, Veneto e Lombardia, e una a guida del centrosinistra, l’Emilia-Romagna. A queste 3 si aggiunge la Toscana che punta all’autonomia energetica, a riprova che esiste un evidente trasversalismo sulla questione. Le 3 Regioni delle pre-intese in virtù degli articoli 116 e 117 hanno chiesto maggiori autonomie su 23 materie (nell’immagine, a cui si aggiunge la materia “organizzazione giustizia di pace”), tra cui alcune fondamentali come la tutela e sicurezza del lavoro, tutela della Salute, Istruzione e grandi reti di trasporto. L’attribuzione di maggiori autonomie, soprattutto nel quadro della Legge Calderoli, potrà infrangere gli ultimi equilibri rimasti a salvaguardia della coesione nazionale e avvantaggiare alcuni territori a danno di altri, aggravando i divari tra le diverse regioni del Paese in quanto al trasferimento delle funzioni è connessa la distribuzione delle risorse pubbliche per il finanziamento di tali funzioni. I livelli essenziali delle prestazioni (LEP) ovvero i servizi e i diritti minimi che devono essere garantiti ai cittadini in tutte le Regioni a fronte del regionalismo differenziato come dettato dall’art. 117, in 20 anni non sono mai stati attuati.

Il ministro per gli affari regionali Roberto Calderoli avanza questo disegno di legge di attuazione (legge quadro) di maggiori autonomie differenziate che, come anticipato, prefigura risvolti decisamente critici. In primo luogo, le autonomie vengono stabilite con intese o contrattazioni private tra il governo centrale e i governi regionali, che poi dovranno essere solamente approvate o respinte dal Parlamento, il quale non stabilisce le intese né potrà emendarle: il Parlamento viene così esautorato del suo ruolo di rappresentanza popolare e di garante degli interessi nazionali. Inoltre, disporrebbe che il trasferimento delle funzioni dovrebbe avvenire in subordine alla determinazione dei LEP ma “determinazione” non significa “attuazione”, infatti nella legge di Bilancio e nella fattispecie nei commi 791-801 “per l’attuazione dell’art. 117 della Costituzione” non è prevista alcuna risorsa finanziaria per attuare concretamente i livelli essenziali delle prestazioni. Il riferimento sarebbe la “spesa fissa e ricorrente”, anche detta “spesa storica “, molto bassa nei comuni del Sud negli ultimi 10 anni anche per via della riduzione dei trasferimenti erariali in seguito alla riforma fiscale federale del 2009 sempre a firma del ministro Calderoli. La spesa storica avvantaggerà dunque le Regioni che sono già ricche e i LEP sono stati inseriti come un pacco vuoto, come uno specchietto per la allodole al fine di poter far partire la cabina di regia delle varie autonomie differenziate e iniziare a trasferire tutte quelle funzioni alle Regioni, drenare le relative risorse economiche verso quelle stesse Regioni e magari privatizzare quelle funzioni. Il disegno di legge è stato approvato in data 2 febbraio 2023 dal Consiglio dei Ministri e la sua approvazione parlamentare è prevista entro fine anno.

In questo contesto si inserisce la legge di iniziativa popolare proposta dal Coordinamento Democrazia Costituzionale per arginare questo disegno. Per la prima volta gli italiani dispongono concretamente della possibilità di incidere sul destino del Paese: questa proposta ha già abbondantemente superato le 50.000 firme necessarie a presentarla in Senato e non è destinata a rimanere stipata in qualche cassetto delle aule parlamentari come è quasi sempre accaduto alla maggior parte di queste LIP: i regolamenti parlamentari approvati nel 2021 ne obbligano la calendarizzazione e la discussione in Aula, questo significa che intanto si inizierà un serio dibattito istituzionale e democratico in materia.

Un Paese che rispetta il dettato della propria Carta Costituzionale rigetta nella maniera più assoluta la tesi del “Paese a due velocità”,  della “locomotiva del Nord” e dello “sgocciolamento”, la formula idonea, giusta e necessaria per lo sviluppo del nostro Paese è quello della crescita armonica ed equilibrata di tutte le sue Regioni, senza mai lasciare nessuno indietro.

Questa operazione di attuazione scellerata dell’autonomia differenziata sta procedendo nell’oscurantismo più assoluto da parte dei media e della politica stessa. Negli ultimi mesi le iniziative di protesta contro l’autonomia differenziata sono fiorite in tutto il Paese, tra cui la grandissima manifestazione del 17 marzo a Napoli, in occasione dell’anniversario dell’Unità d’Italia, che ha visto la mobilitazione di centinaia di sindaci e delegazioni comunali che hanno espresso la loro contrarietà a questo progetto, nella sostanza e nell’iter, ma non una parola a proposito da parte delle principali emittenti nazionali. Un primo importante passo è stato dunque quello di portare la discussione nel Paese, fuoriuscendo pian piano dalla cappa di oscurantismo che è stata calata intorno al tema. Molti consigli comunali, tra cui quello della Città di Napoli, hanno deliberato contro il ddl Calderoli ma altri Sindaci, Consiglieri comunali e regionali non si esprimono ancora sulla questione per non rischiare di andare contro la linea dei rispettivi partiti o correnti e altri Presidenti di Giunta regionali sono consentanei a questa operazione, quando innanzi  a questo “ddl mostro” tutti i rappresentanti istituzionali delle Regioni che ne subiranno gli effetti avversi dovrebbero stringersi attorno ai cittadini e alle associazioni in una mobilitazione civica di difesa della coesione nazionale e di uguali diritti di cittadinanza sociale da Nord a Sud.

In definitiva, con l’approdo del ddl Calderoli da una parte e della Lip Villone dall’altra, la partita politica sull’autonomia differenziata entra nella sua fase cruciale . Il consenso che il regionalismo differenziato raccoglie nei salotti politici è trasversale e la sua potenza mediatica molto marcata, ma il Paese ha già mandato, a coloro che intendono frammentarlo definitivamente, un chiaro segnale: non passerete tanto facilmente.

Regionalismo differenziato in Sanità: propulsore di privatizzazioni ed esodi strutturali

Al fine di definire una previsione chiara dell’impatto che all’approvazione del Disegno di Legge a firma del ministro Calderoli il regionalismo differenziato avrà sul Sistema Sanitario Italiano e sul diritto alla salute dei cittadini, è bene evidenziare alcuni aspetti attuali nell’erogazione di questo diritto nel nostro Paese e nelle sue Regioni.

Nel campo della Sanità, i famosi LEP assumono la più specifica definizione di LEA, livelli essenziali d’assistenza, ovvero le prestazioni e i servizi che il sistema sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o con pagamento di una quota di compartecipazione (il famoso ticket). Il ministero della Salute valuta annualmente l’adempimento da parte delle singole Regioni nell’erogazione dei LEA, tenendo conto dei vari indicatori che comprendono attività di prevenzione collettiva e salute pubblica, assistenza distrettuale ed ospedaliera, tramite la cosiddetta “Griglia LEA”, e sulla base di questi dati si certifica che nelle prime 5 posizioni nell’erogazione dei LEA abbiamo le 3 regioni che hanno avanzato richieste di maggiori autonomie: Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna, con un ampio distacco nei punteggi rispetto alle altre. Esiste dunque nella situazione attuale un acclarato ed enorme dislivello nell’adempimento dei LEA. Inoltre, quasi tutte le Regioni del centrosud sono da 12-16 anni in piano di rientro sanitario e due sono tuttora commissariate. Non a caso, in termini di mobilità sanitaria, le Regioni del Nord sono le prime in mobilità attiva, cioè per attrazione a sé dei pazienti, in ordine Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, dunque nelle prime 4 posizioni ancora quelle tre che hanno avanzato richiesta di maggiori autonomie, mentre le Regioni del Sud sono le prime per mobilità passiva, ovvero per fuga di pazienti verso altre regioni, in ordine Campania, Calabria, Lazio, Sicilia, Puglia. Infine, un dato di analisi che va ad integrare i precedenti, ovvero un recente report della Corte dei Conti documenta che nel decennio 2010-2019, corrispondente al riparto del fondo sanitario nazionale per gli anni dal 2012 al 2021, 13 regioni, quasi tutte del centrosud, hanno accumulato un saldo negativo pari a 14 miliardi, mentre ai primi 4 posti per saldo positivo si trovano ovviamente Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. La Corte dei Conti ribadisce “non è un caso che le Regioni con maggiori capacità attrattive siano posizionate nei primi posti nel punteggio complessivo assegnato per la valutazione dei LEA”.

Premesso questo, nell’ambito Sanità le richieste avanzate da queste 3 regioni sono precisamente undici: maggiore autonomia finalizzata a rimuovere specifici vincoli di spesa in materia di personale stabiliti dalla normativa statale; maggiore autonomia nella programmazione di borse di studio per i medici specializzandi e loro integrazione operativa con il sistema aziendale; possibilità di stipulare per i medici, contratti a tempo determinato di “specializzazione-lavoro” come strumento alternativo all’accesso alle scuole di specializzazione; possibilità di stipulare accordi con le Università del loro territorio; maggiore autonomia nello svolgimento delle funzioni relative al sistema tariffario di remunerazione e di compartecipazione limitatamente agli assistiti residenti nella regione; maggiore autonomia nella definizione del sistema di governance delle aziende e degli enti del SSN; richiesta all’AIFA di valutazioni sull’equivalenza terapeutica; competenza a programmare gli interventi sul patrimonio edilizio e tecnologico del SSN in un quadro pluriennale adeguato di risorse; maggiore autonomia legislativa, amministrativa e organizzativa in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi; gestione del personale; distribuzione ed erogazione dei farmaci.

Alcune di queste rappresenterebbero strumenti importanti per fronteggiare la grave carenza di personale ma dovrebbero essere estese a tutte le Regioni: ad esempio l’abolizione dei tetti di spesa per il personale sanitario e l’istituzione di contratti di formazione-lavoro anticiperebbero e aumenterebbero l’ingresso di nuovi medici nel mondo del lavoro; altre forme di autonomia invece sovvertirebbero totalmente gli strumenti di governance nazionale aumentando le diseguaglianze regionali, ad esempio l’autonomia sul sistema tariffario, di remunerazione e di compartecipazione al sistema di governo delle aziende e degli enti del servizio sanitario regionale; altre istanze ancora risulterebbero addirittura eversive rispetto al SSN: ad esempio, una maggiore autonomia in materia di istituzione e gestione dei fondi sanitari integrativi aprirebbe la strada a sistemi assicurativo-mutualistici regionali totalmente sganciati dalla normativa nazionale; inoltre la richiesta del Veneto di contrattazione integrativa regionale per i dipendenti del SSN, assieme all’autonomia di gestione del personale e di regolamentazione dell’attività libero-professionale, potrebbe seriamente concretizzare una concorrenza tra Regioni con trasferimento di personale dal Sud al Nord e ponendo una pietra tombale sulla contrattazione collettiva nazionale e sugli stessi sindacati di categoria.

La conclusione è che i dati documentano enormi diseguaglianze tra i 21 sistemi sanitari regionali che sono già in progressivo aumento e di conseguenza l’attuazione delle maggiori autonomie richieste dalle Regioni che hanno le migliori performance andrà certamente ad amplificare queste diseguaglianze, a creare ulteriori spinte di concorrenza e privatizzazioni e a dissolvere definitivamente il principio universalistico e solidaristico dell’art. 32 della nostra Costituzione.

È la secessione dei ricchi non solo perché le Regioni ricche diventeranno più ricche e quelle povere ancora più povere, ma perché nelle stesse Regioni in difficoltà sempre più pazienti saranno costretti a rivolgersi alla sanità privata con ulteriori disparità tra chi dispone delle risorse economiche per poterselo permettere e chi non le dispone e non potrà permetterselo. Non si tratta solamente di una frammentazione tra Nord e Sud, è una frammentazione a vari livelli, sociale ed economica.

Come è ben risaputo, la Legge 833 del 1978 istituiva un Sistema Sanitario Nazionale basato sui principi di universalità, uguaglianza ed equità, ma tutte le riforme attuate dagli anni ’90 in poi hanno progressivamente aperto la Sanità alle logiche del bilancio e del profitto. Abbiamo un sistema di sanità convenzionata con il pubblico che è diventato pagatore di prestazioni affidate ad altri, abbiamo un sistema di sanità privata che gode di lauti sgravi fiscali, e nelle politiche governative non si intravede alcuna intenzione di cambiare approccio nonostante la pandemia da Covid-19 abbia messo in luce tutti i limiti di questo sistema. Dopo la lezione della pandemia e dell’emergenza sanitaria che ne è derivata, sarebbe ancor più necessario attuare un grande piano di rifinanziamento straordinario della salute pubblica, per investire nelle strutture, nelle apparecchiature, nel recupero dei posti letto (ridotti da 530.000 nel 1981 a 215.000 nel 2016)  e nella medicina territoriale e di prossimità che rappresenta il primo scudo che è venuto a mancare nel fronteggiare questa emergenza.  Anche solamente recuperare dagli sgravi fiscali al privato e i fondi con i quali il pubblico lo sostiene (si ricorda che la  Costituzione Italiana prevede l’iniziativa privata ma anche che questa debba sorreggersi e finanziarsi autonomamente) consentirebbe ad esempio di disporre delle risorse utili all’incremento delle borse di specializzazione e alla rimozione del tetto di spesa per le assunzioni del personale. Questo progetto di autonomia differenziata va invece nella direzione di drenare altre ingenti risorse verso le Regioni più ricche grazie al trasferimento delle funzioni, di aprire la strada ad ulteriori privatizzazioni e addirittura a sistemi assicurativi. La conseguenza finale dell’autonomia differenziata regolata dalla legge quadro Calderoli (che, si ricorda, escluderà il dibattito parlamentare) sarà quella di dare il colpo di grazia al già devastato Diritto universale alla Salute: si verificherà una vera e propria legittimazione istituzionale dei divari tra i sistemi sanitari regionali, un Sud totalmente lasciato alla deriva e il Nord in mano ai privati.

Basti pensare che i LEA, definiti nel 2001, ad oggi come riportato nella Griglia LEA del Ministero non sono mai stati realmente erogati. È dunque impensabile che vengano attuati in tempi brevi  soprattutto alla luce del fatto che nei commi 791-801 in materia di “attuazione dell’art.116 terzo comma della Costituzione” della Legge di bilancio non sono previste risorse finanziarie per  i LEP e infatti la dicitura “enunciati” e “definiti” non significa “attuati”: non esiste alcuna garanzia per i LEP e per i LEA. Per questo, tra le altre cose, la proposta di legge popolare avanzata dal Coordinamento Democrazia Costituzionale prevede di ricondurre la sanità alla competenza legislativa esclusiva dello Stato e inoltre prevede di sostituire i livelli essenziali delle prestazioni con i livelli uniformi delle prestazioni, ovvero livelli uguali per tutti i territori del Paese. La cosiddetta “LiP Villone” consentirebbe di tutelare il diritto alla Salute da quest’ultima estremistica offensiva, e può essere sottoscritta fino al 9 maggio tramite SPID al link https://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/. La proposta ha già abbondantemente superato le 50.000 firme necessarie a presentarla in Senato e i regolamenti formali approvati nel 2021 ne obbligano la calendarizzazione e la discussione in Aula. Ogni firma in più conferirà maggiore forza a questa iniziativa popolare, che rappresenterà un primo strumento di contrasto a questo disegno di frammentazione del Paese e di discriminazione dei cittadini sulla base della loro residenza e del loro reddito.