«Cosa vogliamo?» «Giustizia climatica!», «Quando la vogliamo?» «Adesso!». Questi gli slogan che si rimbalzano nei cortei dei giovani e della società civile che dalla Pre-cop di Milano alla Cop di Glasgow hanno portato in piazza in tutto il mondo centinaia di migliaia di persone, che chiedono un drastico cambiamento di rotta nelle politiche di contrasto alla crisi climatica. Fino a sabato scorso, quando nella “Giornata mondiale per la giustizia climatica” la mobilitazione è esplosa in tutto il mondo, con 300 manifestazioni dalle Filippine agli USA, e solo a Glasgow, sotto una pioggia battente, sono scese in piazza 200.000 persone per chiedere un Accordo avanzato alla COP 26.

L’andamento fin qui interlocutorio di dichiarazioni e sottoscrizioni di documenti non consente di capire se alla fine ci sarà la svolta. Per ora l’impressione è che la dichiarazione di chiusura del G20 di Roma faccia scuola: una cornice più condivisibile di altre volte ma in assenza di impegni precisi e misurabili, con diverse e chiare scappatoie per chi la lotta ai cambiamenti climatici non vuole farla nei tempi che l’IPCC ha indicato come dirimenti. Una cornice che consentirebbe scelte, climaticamente e ambientalmente inaccettabili, come quella che si sta configurando in Europa con la nuova versione del regolamento sulla Tassonomia, che concederebbe il certificato di sostenibilità agli investimenti in nucleare e gas. Un vero e proprio greenwashing, come hanno denunciato i Verdi Europei. Ma c’è ancora spazio per arrivare ad un accordo che sia qualcosa più del classico mezzo bicchiere pieno. Anche se ….

… anche se quel richiamo alla giustizia climatica sarà molto probabilmente il grande escluso dall’accordo finale. Ed oggi, senza una forte e strutturale attenzione alla giustizia e all’impatto sociale delle politiche ambientali e climatiche, il fallimento di queste ultime è altamente probabile.

Quando comparve per la prima volta la richiesta di giustizia climatica eravamo all’inizio del secolo, nell’era del World Social Forum di Porto Alegre e della rinascita di un movimento internazionale per la giustizia globale, che ebbe la capacità di cogliere tra le nuove emergenze sociali quelle provocate dal cambiamento climatico. Poi a Parigi, nel 2015, i finanziamenti promessi per i paesi in via di sviluppo per politiche di adattamento segnarono il riconoscimento ufficiale della necessità che le politiche internazionali si ispirassero alla giustizia climatica, anche senza mai citarla. L’approccio fu poi ripreso dal Global Compact sulle Migrazioni, sottoscritto nel dicembre del 2018 a Marrakech da 152 Paesi (ma non dall’Italia, guidata allora dal primo governo Conte).

Da allora non ci sono stati cambiamenti di rotta nelle politiche internazionali, nonostante si siano prodotti in questi anni studi scientifici che rilevano le correlazioni tra crescita economica e crisi climatica. In uno studio della Stanford University, pubblicato nel 2019, sono stati intrecciati i dati sulla crescita economica con l’andamento delle temperature nel mondo tra il 1961 ed il 2010. Ed è emerso che tra i paesi più poveri il PIL pro capite si è ridotto tra il 17% ed il 31% per effetto del riscaldamento globale. Dividendo poi tutti i paesi in dieci gruppi in base alla ricchezza, si è rilevato che tra il primo e l’ultimo gruppo il divario economico oggi è del 25% maggiore di quello che ci sarebbe stato in assenza del riscaldamento globale.

Oggi questo discorso non vale più solo per i Paesi poveri, ma anche per i poveri nei paesi ricchi. Questa è la novità che, per quanto conosciuta anche prima, la pandemia ci ha sbattuto in faccia senza possibilità di equivoci. Ed oggi, ad esempio, la povertà energetica è diventata un fattore costitutivo delle diverse forme di povertà che hanno colpito l’Occidente. Tanto da vedersi riservata una speciale attenzione anche nella recente 49^ Settimana sociale dei cattolici italiani tenuta a Taranto.

Le manifestazioni, gli slogan di Milano e di Glasgow ci stanno dicendo che la giustizia climatica è il cuore della transizione ecologica, perché questa non è solo una scelta tecnologica, ma investe tutta l’organizzazione della società, e su di essa le disuguaglianze pesano come macigni. E sono disuguaglianze multidimensionali, non solo di reddito, ma anche di genere, di generazioni, di luoghi, di cultura. Di questa attenzione qualche traccia c’è nel programma della COP 26, con le giornate dedicate ai giovani, alle donne, alle comunità più esposte al rischio climatico, e sarebbe auspicabile che nella giornata dedicata alle città emergesse una significativa attenzione alle periferie. Perché, banalmente, se la transizione non coinvolge tutta la popolazione, se gli ultimi e i vulnerabili sparsi in tutto il mondo non sono coinvolti nella transizione e per esserlo necessariamente la transizione deve innanzitutto rispondere ai loro bisogni essenziali, se le politiche ambientali e climatiche non applicheranno la discriminazione positiva, partendo cioè dai bisogni degli ultimi e dei vulnerabili, favorendo innanzitutto il miglioramento delle loro condizioni di vita, se la transizione ecologica non sarà prima di tutto giusta, non avrà alcuna speranza di successo. Se poi si pretenderà di far pagare i costi della transizione a tutti in parti uguali, succederà quanto già 60 anni fa stigmatizzava Don Milani: “se dividiamo in parti uguali tra disuguali, aumenteremo le disuguaglianze”.

Il vero fallimento di Glasgow, che rischia di rimanere nascosto tra le righe dell’accordo, è che negli equilibri finali si saranno fatti i conti con gli interessi dei grandi player dell’economia mondiale ma non con i miliardi di persone, che in tutti i paesi del mondo vivono tra rabbia e sofferenza la propria condizione sociale.

In altre parole è necessario accendere sull’accordo finale di Glasgow i riflettori di una doppia preoccupazione: che sia un buon accordo per il clima del nostro pianeta e lo sia per la vita ed i diritti delle persone che lo abitano, sapendo che non sono tutte uguali. E dovremo valutare modi, entità e tempi non solo per il trasferimento di risorse ai paesi più poveri, ma anche per gli investimenti e i vincoli posti alle politiche perché siano attente agli impatti sociali, anzi che partano da questi impatti per scegliere strade di maggior giustizia.