All’origine dei referendum di cui parliamo stanno la cultura del garantismo dei radicali italiani, che li ha ideati, e il panpenalismo della Lega, che li ha poi sostenuti con la richiesta di 9 consigli regionali. Cultura quest’ultima volta sia alla carcerazione a prescindere, come strumento di controllo sociale per i reati commessi dagli ultimi e dai penultimi, che alla carcerazione mai per i delitti dei “colletti bianchi” – concussori, corruttori, bancarottieri, evasori ecc.- che non a caso rappresentano solo l’1% dei 60 mila detenuti in Italia. Il malriuscito intreccio di queste due culture – che condividono la mancata comprensione del rapporto che lega l’uso privatistico delle risorse e la compressione dei diritti di libertà – spiega le ragioni non contingenti per le quali la Lega, durante i due mesi precedenti il 12 giugno, si è del tutto disinteressata della vicenda referendaria. Dovendo infatti essa far fronte a evidenti contrarietà del suo elettorato riguardo all’abrogazione della Legge Severino e di una parte dell’art.274 cpp sulle misure cautelari.  E’ opportuno richiamare , se si vuol trovare conferma delle tesi qui espresse , le ragioni a sostegno del voto No sui 5 quesiti referendari: l’abrogazione della legge Severino ( D.Lgs 235/2012 ) permetterebbe a condannati in via definitiva per corruzione concussione e peculato di candidarsi o permanere nella carica di parlamentare , membro del Governo o amministratore locale, mentre l’abrogazione della norma indicata nel quesito sulle misure cautelari renderebbe impossibile tutelare in via preventiva le possibili vittime di gravi delitti seriali        (stalking, truffe agli anziani, furti, evasione fiscale e contributiva, bancarotta ,riciclaggio , inquinamento ambientale, ecc. finanziamento illecito dei partiti. Nell’uno come nell’altro caso il danno per la mancata tutela della collettività e per i principi di legalità sarebbe certo ed enorme. Nemmeno risultano difendibili i motivi addotti dai referendari a sostegno dei quesiti: se si voleva davvero riaffermare il principio della presunzione d’innocenza per gli amministratori locali condannati in primo grado, perché si è chiesto di abrogare anche l’intera normativa che riguarda i condannati in via definitiva? Se si voleva realmente ridurre le detenzioni ingiuste (1000 casi/anno su una media di 260 mila condanne penali definitive/anno) perché ridurre drasticamente la possibilità di disporre misure cautelari a carico di molte migliaia di probabili autori di gravi reati seriali senza dire che questa scelta non ha nulla a che fare con la tutela delle vittime di detenzioni ingiuste?  Essendo queste ultime causate non dalla disciplina delle misure cautelari (gli artt. 272-325 cpp )  ma da errori soggettivi dei PM e/o dei giudici dell’udienza di convalida , è chiaro che anche dopo l’abrogazione richiesta dai referendari nessun aiuto potrebbe venire all’obiettivo di ridurre i casi di detenzione ingiusta. Naturalmente tali errori vanno indagati, statisticamente aggregati adottando poi le misure idonee ad eleminarli o ridurne il numero.   Gli altri due quesiti – diritto di voto agli avvocati e professori universitari nei consigli giudiziari per la valutazione professionale dei magistrati, presentazione delle candidature, per le elezioni a componente togato del CSM, senza obbligo di sostegno da parte di altri 25 o 50 magistrat* – sostanzialmente irrilevanti sul piano concreto, sono tuttavia espressione di pulsioni ideologiche che è bene mettere in luce. Si vuole colpire, nel caso delle candidature dal CSM, la rappresentanza associativa (le c.d. “correnti”) all’interno della magistratura – ultimo esempio questo di attacco al ruolo dei corpi intermedi – mentre con la stessa logica si pretende, nel caso del diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari sui magistrati, di valutarne la professionalità senza eliminare in radice i possibili conflitti di interesse di cui l’avvocato potrebbe essere individualmente portatore. Una minaccia, pur circoscritta e modesta, al corretto autogoverno della magistratura.  Sottolineando, in relazione a questo quesito, che: 1) il presidente del CNF siede e vota su ogni deliberazione nel consiglio direttivo della Corte di Cassazione e che 2) da molti anni la facoltà attribuita ai Consigli degli Ordini degli Avvocati di segnalare ai consigli giudiziari opinioni anche negative sulla qualità  professionale dei magistrati di carriera (facoltà che viene giustamente riproposta dalla riforma Cartabia)  non è mai stata utilizzata!!  Ultima ma non ultima la richiesta separazione delle funzioni tra PM e Giudici, terreno sul quale si manifesta al massimo grado la distanza tra obiettivo dichiarato dai referendari – la “terzietà” del Giudice (e la presunta non imparzialità del PM) – e stato della realtà.   Quest’ultima è caratterizzata dal fatto che i passaggi dall’una a all’altra funzione da diverso tempo riguardano ogni anno 2 o 3 magistrati su 1000, che il passaggio è ammesso se si supera un difficile esame professionale, che il magistrato che cambia funzione deve cambiare distretto e città come sede giudiziaria in cui svolgere il proprio lavoro e che il 50% delle richieste dei PM non vengono accolte dai Giudici.  Così stando le cose, la “terzietà” deve considerarsi acquisita come del tutto incompreso dai referendari vada ritenuto il ruolo del PM: che è filtro tra l’investigazione di polizia e il suo riscontro giudiziario., viste le attribuzioni a lui demandate.  In particolare la finalizzazione processuale delle indagini, la garanzia di completezza delle stesse (art.112 cost.), il rispetto dei diritti della persona (artt.13, 24, 25, 27 cost.) nella loro gestione. Questi caratteri fanno del PM una figura tanto lontana dall’avvocato di polizia, quanto vicina a quella del giudice. E quindi, chiariti i fatti, perché questo quesito e gli altri?   Di quale ideologia essi sono espressione?    Una plausibile risposta si può rintracciare solo richiamando i tratti del contesto globale che si è realizzato negli ultimi decenni ed ancor dopo la pandemia e la guerra Ucraina Russia. I fenomeni migratori, le diseguaglianze sociali, il minor grado di libertà nel mondo, la polarizzazione sempre più spinta della ricchezza indotta dall’attuale capitalismo, le minacce conclamate alla democrazia ed alla vita sulla terra, le guerre contro le donne e contro l’umanità.  Alla base di queste vicende sta la salda egemonia dell’appropriazione privata delle risorse del pianeta assieme all’inadeguatezza della dimensione politica a contrastane andamenti ed esiti. In questa situazione il populismo di destra – in Italia   Ungheria, Polonia e Gran Bretagna – e le nuove forme di fascismo interpretate da Trump, Bolsonaro, Erdogan, sono alla costante ricerca di capri espiatori su cui scaricare responsabilità e impotenza di partiti, governi e parlamenti. Il potere giudiziario in Italia, il suo essere indipendente dagli esecutivi ed autogovernato da statuti e culture democratiche come prescritto dalla Costituzione, è un perfetto capro espiatorio di cui aggredire credibilità e indipendenza.  I referendum sulla giustizia trovano qui la loro principale spiegazione.    Il tema che riguarda tutti – il conflitto redistributivo e produttivo della ricchezza, con le negative conseguenze che produce in tutti gli ambiti della nostra vita –  si manifesta seppur travestito anche in questa confusa contesa referendaria. Ultimo episodio, e altri ne seguiranno, di quel medesimo conflitto. Infine, pur ribadendo la  necessità di riforme ordinamentali  – come quella della ministra Cartabia, positiva per l’ordinamento negativa per le regole sulla improcedibilità –  non sorprende che i quesiti referendari  per le ragioni illustrate  nulla abbiano a che fare con la soluzione dei problemi  di cui soffre la giustizia italiana:  pochi magistrati (meno della metà di quelli tedeschi), poche risorse , arretratezze  tecnologiche , durata dei processi, arretrato, insufficiente  depenalizzazione. Lo scontro sulla “giustizia”, facile prevederlo, non si concluderà presto.