Nel piccolo spazio che il governo lascia libero dal ciclo continuo di conversione dei decreti su Covid e Piano nazionale di ripresa, il senato ha espresso ieri mattina un voto storico. Ha approvato la modifica di uno dei principi fondamentali della Costituzione.

Per la prima volta dal 1948 un’aula parlamentare interviene su uno dei primi 12 articoli della Carta. La novità riguarda l’ambiente e può essere dunque considerata positiva – così la giudicano tutte le associazioni ambientaliste – perché se e quando il disegno di legge costituzionale sarà promulgato (la procedura, com’è noto, è lunga) all’articolo 9 si aggiungeranno la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, accanto a quella del paesaggio che c’è già e che è stata sin qui la base (con l’articolo 32 sul diritto alla salute) per la tutela giuridica dell’ambiente. Se infatti l’Italia discute da quasi quarant’anni di questa modifica – e ha una ritardo persino più antico rispetto agli altri paesi europei che hanno l’ambiente nelle loro carte fondamentali – il nostro paese ha anche una consolidata giurisprudenza costituzionale e di Cassazione che da decenni ribadisce come l’ambiente sia un valore «fondamentale», «primario», «assoluto».

Il limite della riforma approvata ieri al senato è infatti quello di essere un punto di arrivo, una conferma di importanti battaglie dentro e fuori le aule di giustizia e non l’apertura di una fase nuova. Lo riconosce anche la relazione al disegno di legge firmato dai 5 Stelle, che lo illustra come un provvedimento necessario a «rendere chiaro» quello che oggi è già riconosciuto nei tribunali. Non siamo davanti a una «riscrittura della storia del paese», purtroppo, come solo la propaganda grillina può sostenere, ma a un passaggio solenne che rischia di non avere utilità pratica.

È più preoccupante che una parte consistente di questa maggioranza abbia spinto per una deregulation delle tutele dell’ambiente e del patrimonio storico artistico nel nome del Recovery plan di quanto non sia rassicurante che la quasi unanimità del parlamento abbia voluto scrivere la parola ambiente in Costituzione. Perché se l’Italia giusto ieri è stata sottoposta a tre nuove procedure di infrazione europee (due al primo stadio e una allo stadio avanzato) per la mancata protezione di alcune specie animali e l’inquinamento dell’acqua pubblica, non è perché non ha scritto la parola ambiente in Costituzione.

Dunque è legittimo chiedersi quanto valga la pena infrangere il tabù dei principi generali, mai toccati fin qui, per introdurre una novità che avrà effetti soprattutto simbolici. Il rischio che questo precedente apra uno spiraglio per modifiche in peggio a opera di altre e più temibili maggioranze future esiste. Basta leggere l’articolo della Costituzione immediatamente successivo a quello sul quale si interviene adesso, l’articolo 10 che tutela la condizione giuridica dello straniero, per valutare il pericolo.

C’è poi un problema di priorità. È lunga la lista delle riforme costituzionali e istituzionali – come la legge elettorale e i regolamenti parlamentari – che la riduzione di deputati e senatori avrebbero dovuto sbloccare e che invece sono ferme. Non basta che abbia mosso un passo la legge che allarga ai 18enni il voto per il senato. La maggioranza è ancora immobilizzata davanti a quei «contrappesi» che pure sono giudicati indispensabili per bilanciare le distorsioni prodotte dall’affrettato taglio della rappresentanza. Il gioco delle convenienze che scatta sempre sul finale di una legislatura è partito, dunque è facile prevedere che ci ritroveremo con la stessa legge elettorale e due camere ancor meno funzionali di quelle attuali. Aver scritto in Costituzione la parola ambiente non potrà consolare.