Come si ricorderà Mario Draghi nel presentare alle Camere il suo programma di Governo il 17 febbraio scorso, aveva sottolineato come una riforma fiscale non si possa fare a spizzichi e bocconi, come è invece è avvenuto lungo gli anni con una quantità di interventi legislativi in campo tributario, tali da mandare in confusione anche i migliori professionisti del settore.

Pertanto, continuava Draghi, è necessario che un nuovo intervento, peraltro richiesto dalla Ue e previsto tra le “riforme di accompagnamento” alla realizzazione del Piano di Ripresa e Resilienza, venga preparato da un’accurata discussione tra chi ha solide esperienze in materia.

“Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, quando il governo affidò a una commissione di esperti, tra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente. Una riforma fiscale segna, in ogni Paese, un passaggio decisivo: indica priorità; dà certezze; offre opportunità. È l’architrave della politica di bilancio. In questa prospettiva va studiata una revisione profonda dell’Irpef, con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività. Funzionale al perseguimento di questi obiettivi sarà anche un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale”.

Non mancarono gli applausi a questo passaggio del discorso del premier, anche se subito dopo si scoprì che non era proprio farina del suo sacco, ma l’esito di un “taglia e cuci” da un editoriale sul Corriere della Sera di alcuni mesi prima scritto da Francesco Giavazzi. Amico di vecchia data e non a caso poi nominato consigliere economico del Presidente del Consiglio.

Solo che i buoni propositi di organicità, non sono durati più di qualche settimana. Nella stesura del Pnrr i compiti della suddetta commissione sono alquanto ridimensionati. Frugando fra le 270 pagine che compongono il testo, così come pervenuto alla Camera il 26 aprile, si legge (p.76) che:

“Il Governo presenterà al Parlamento entro il 31 luglio 2021, una legge delega da attuarsi per il tramite di uno o più decreti legislativi delegati. Il disegno di Legge delega terrà adeguatamente conto del documento conclusivo  della ‘indagine conoscitiva sulla riforma dell’Irpef e altri aspetti del sistema tributario’ avviata dalle Commissioni parlamentari e tuttora in corso di svolgimento. Per realizzare in tempi certi la riforma definendone i decreti attuativi il Governo, dopo l’approvazione della legge di delega, istituirà una Commissioni di esperti”.

Quest’ultima quindi sarà chiamata a lavorare non sui principi della legge di riforma, ma sull’applicazione pratica di norme sostanzialmente già decise.

Siamo dunque di fronte a una scelta dettata da un rispetto formale delle prerogative del Parlamento nella fissazione dei criteri entro i quali deve esercitarsi la delega conferita al governo, nonché del lavoro della Commissione bicamerale? È lecito almeno dubitarne, vista la quantità di decreti legge che si è fin qui abbattuta sulle camere e i tempi strozzati con cui le stesse hanno potuto discutere del ponderoso piano governativo.

D’altro canto era già nota, almeno negli ambienti più vicini al Ministero, la scarsa propensione di Daniele Franco, il ministro dell’Economia, a mettere mano in modo complessivo alla materia fiscale. Ora – apprendiamo da la Repubblica del 16 maggio dal Ministero del Tesoro si rende esplicito che non vi è alcuna intenzione di mettere in piedi una commissione di esperti per preparare la riforma fiscale secondo il modello richiamato da Draghi-Giavazzi.

Insomma una Visentini-Cosciani bis non ci sarà, se non in forma del tutto depotenziata e con ruolo tecnico. D’altro canto – si fa notare – la già citata Commissione Bicamerale per l’indagine conoscitiva sulle tasse, dopo 61 audizioni lungo quattro mesi di operatività è in dirittura di arrivo per concludere la sua fatica e depositare, probabilmente a fine giugno, la sintesi del suo lavoro.

Ma allora perché tanta enfasi posta dal presidente Draghi nel suo discorso sulla fiducia sulla commissione di esperti? È da escludere che Draghi non fosse al corrente del lavoro della Commissione bicamerale. La cosa più probabile è che ai partiti che compongono la variegata coalizione di maggioranza, poco piaceva di venire surclassati da studiosi della materia. Ovvero gli interessi – e qui ce ne sono parecchi in gioco – hanno avuto la meglio sulle competenze. Non sarebbe del resto una novità. Sta di fatto che il ministro del Tesoro intende basarsi sul documento finale della Commissione bicamerale, la quale ha peraltro sollecitato i singoli partiti a presentare la propria proposta in merito. È presumibile che come al solito si cercherà una soluzione compromissoria fra le varie tesi, con buona pace dei propositi organicisti di partenza e soprattutto, il che è ancora peggio, del criterio della progressività.

Sembra infatti che la tesi di una flat tax secca non verrà accettata, ma neppure una soluzione di “un’aliquota continua” alla tedesca capace di evitare “gradoni” tra un livello di reddito e l’altro nell’applicazione del principio della progressività. Da un lato Pd e M5stelle vogliono una riduzione del numero delle aliquote – che peraltro sono solo cinque – con la preoccupazione di rendere meno brusco e traumatico il passaggio dal secondo al terzo scaglione. Mentre sull’altro lato Lega e Fratelli d’Italia non rinuncerebbero del tutto alla flat tax, ma la vorrebbero applicare solo ai “redditi incrementali”. Ovvero ciò che è stato guadagnato in più rispetto alla precedente dichiarazione dei redditi, verrebbe tassato al 15%. In altre parole, se ben si comprende, più aumenta il reddito e meno si è tassati. Un premio alla scalata sociale.

Come si vede entrambe le posizioni, seppure con modalità ed effetti diversi, si muovono in direzione del tutto contraria a quella di una seria applicazione del principio di progressività sancito dall’art.53 della nostra Costituzione. Dal momento che anche un’ulteriore riduzione delle aliquote non può che avere un effetto di appiattimento sul sistema tributario. Si dice che nel 2022 avremo una nuova Irpef. Ma se le cose stanno e restano così si tratterebbe di una controriforma che affosserebbe ogni anelito di giustizia fiscale.