Finalmente la Consulta ha demolito un punto fondamentale dell’iniqua riforma Monti-Fornero
Una bella notizia per i diritti dei lavoratori e la dignità delle persone: demolito un punto fondamentale dell’iniqua riforma Monti-Fornero in tema di licenziamenti individuali. Con la sentenza n. 59 pubblicata il 1° aprile 2021, la Corte Costituzionale ha stabilito che, dichiarata l’illegittimità di un licenziamento economico (giustificato motivo oggettivo) perché “il fatto è manifestamente insussistente”, il giudice deve ordinare la reintegra nel posto di lavoro e che questa non può più essere a sua mera discrezione. Portata e motivazioni della sentenza sono già state ben commentate anche su queste pagine. Vogliamo però evidenziare ancor di più l’iniquo sistema della legge in oggetto, “apripista” del successivo Jobs Act.
Ricordiamo che nel 2012, con l’allora ministra del Lavoro Elsa Fornero, si volle “smantellare e svilire” – in modo sostanziale e processuale – l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Da allora, la tutela reale del reintegro nel posto di lavoro è diventata un’ipotesi remota, quasi impossibile. In particolar modo nei licenziamenti oggettivo-economici. Qui la discrezionalità, appunto eliminata dalla Corte Costituzionale, rendeva incerto il reintegro anche di fronte a casi “manifestamente” ingiusti. Infatti, per “sperare” di essere reintegrati non bastava che venisse accertata l’insussistenza delle motivazioni addotte. Questa doveva (e deve ancora) essere “manifesta”. Un incomprensibile aggravio ai danni dei lavoratori che ha fatto (e fa ancora) molto discutere.
Inoltre, il testo precisava che, anche in caso di accertata manifesta insussistenza, il giudice non “deve” ma “può” decidere per la reintegra. Iniquità ancor più evidente visto che tale discrezionalità era prevista solo in questo caso: unico “può” tra tanti “deve”. Come risulta dal testo di legge a suo tempo approvato.
Adesso, grazie alla Corte, il giudice sarà obbligato a reintegrare. Almeno di fronte a un licenziamento “manifestamente” ingiusto. Naturalmente questo riguarda solo i lavoratori assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015. Per gli altri si continua ad applicare, purtroppo, il Jobs Act. Così la Suprema Corte compie un altro passo verso la tutela della dignità dei lavoratori, delle persone. Come nel 2018, quando (sentenza n° 194/2018) dichiarò incostituzionale il criterio di indennizzo del Jobs Act facendo crollare “uno dei pilastri della riforma Renzi”. O come nel 2020 (sentenza n° 150/2020) quando dichiarò incostituzionale l’automatismo dell’indennizzo anche rispetto al licenziamento viziato nella forma (art. 7, d.lgs. 23/2015).
Una tutela particolarmente “mortificata” in questi ultimi anni (2012 e 2015) da leggi che hanno praticamente svuotato il senso di “tempo indeterminato”, rendendolo “indeterminabile” nel solco del principio: “licenziati in qualsiasi momento, reintegrati praticamente mai” creando le premesse per ulteriori ingiustizie e disuguaglianze sociali.
Ricordiamoci, infatti, che l’art. 18 non riguarda le piccole aziende e un licenziamento oggettivo ingiusto non “assolve potenziali fannulloni” ma – evidenziando l’assenza di reali motivi economici – fa emergere la sola volontà di colpire il lavoratore per altre motivazioni. Queste possono essere le più diverse: “personali”, per occuparne un altro a costi minori o magari per dare un “segnale” ad altri (“colpirne uno per educarne cento”). Una situazione resa ancor più grave dalla attuale realtà. Triste pensare però che le Supreme Corti debbano intervenire (quando, come e dove possono…) per riparare alle ingiustizie commesse a danno dei cittadini. Non se la si prenda con i “tecnici”. Sono i politici che, comunque, votano le leggi (2012). Quando non le fanno direttamente loro (2015).
Per ridare dignità ai lavoratori, alle persone, onorando la Costituzione è necessario reintrodurre tutele reali. Non basta fare leggi che ne riportano il nome. Il Decreto Dignità, infatti, si è mostrato subito come una “misura del tutto insufficiente non soltanto perché non aveva rimesso la reintegrazione al centro del sistema, ma anche dal punto di vista della sua adeguatezza economica”. Le leggi poi devono essere scritte in modo chiaro, anche al riparo da interpretazioni giurisprudenziali che possono svilirne la portata.
Occorre però che le persone si sveglino e reclamino forte i loro diritti, come alla fine degli anni ’60. Altrimenti si rischia di continuare a fare come le “Stelle” di Cronin: “stare a guardare”