La formazione del governo Draghi rivela le sue scelte.

Di Alfonso Gianni

È persino imbarazzante dare un giudizio sulla composizione del governo Draghi. Che i governi tecnici non esistano nella realtà, ma solo nelle vulgate giornalistiche dovrebbe oramai, sulla scorta dei precedenti (Ciampi, Dini, Monti governi politici quanto altri mai), essere chiaro a tutti. Ma che ciò appaia in modo così spudorato forse non era prevedibile. E invece siamo di fronte a uno schieramento di ministri e ministre, queste ultime poche, ove prevale nettamente la parte proveniente dai partiti, peggio ancora dalle loro correnti. Il manuale Cencelli è tornato a farla da padrone, strutturando un Esecutivo nettamente spostato a destra rispetto al precedente.

Un elemento di novità comunque non manca. Se guardiamo alla collocazione dei vari membri del nuovo governo, si vede come quelli non attribuibili alle nomenclature partitiche, siano anche coloro che hanno in mano i dicasteri decisivi per la (ri)elaborazione e la messa in opera del Recovery Plan. In altre parole questi ultimi sono poco più di un terzo dell’Esecutivo, ma saranno chiamati a gestire la ricostruzione post pandemica del paese – se ci sarà –  e quindi il flusso dei finanziamenti europei. Fanno sicuramente parte di questo schieramento il nuovo ministero per la transizione ecologica (la cui strutturazione è appena delineata per un giudizio ponderato), quello per l’innovazione tecnologica, ovviamente quello dell’economia, quello delle infrastrutture. L’impressione è esattamente quella che Draghi abbia così voluto avere sotto il proprio diretto controllo, comunque senza rischiare l’inciampo delle forze partitiche, i ministeri economici chiave che dovranno guidare il processo di ricostruzione. In sostanza siamo alle solite: l’economia resta al comando e la politica segue.

Una situazione non dissimile, in fondo, da quella dell’Unione europea nella gestione della crisi economica antecedente a quella pandemica, ove la Bce, diretta appunto da Draghi, ha guidato le danze con il Quantitative Easing. Ed è precisamente ciò che la Ue si aspetta dall’attuale governo. Le prime dichiarazioni giunte dai ponti di comando di Bruxelles, a cominciare da quelle di Ursula Von der Leyen, vanno precisamente in quella direzione. Anche qui non c’è stupirsi. Non è solo il nostro paese che in questa terribile contingenza si gioca il proprio futuro. Anche l’Europa lo fa. Se il Recovery Fund non dovesse avere successo in Italia, la terza forza economica della Ue, il terzo contributore del bilancio europeo, il fallimento si ripercuoterebbe sull’Europa nel suo complesso. Significherebbe l’arresto della linea emersa dal famoso “compromesso storico” – riprendo la indovinata definizione del quotidiano il manifesto – della riunione di fine luglio dello scorso anno che diede il via al Recovery, alla formazione di un debito comune, alla costruzione di un bilancio fatto non solo sui trasferimenti dei singoli paesi ma anche attraverso una capacità di imposizione fiscale sovrannazionale (come la carbon tax o la web tax), alla emanazione di titoli di debito europei. Sarebbe la vittoria della parte più retriva dello schieramento europeo, dei paesi cosiddetti frugali, di quelli guidati dalle forze populiste e nazionaliste, dei fautori della “democrazia illiberale” – un perfido ossimoro -, delle forze più conservative ben presenti nei maggiori paesi a cominciare dalla Germania.

Per questo le forze dominanti in Europa hanno interesse che il Recovery Plan italiano non cada vittima di uno scontro di meschini interessi e di clamorose incapacità e allo stesso tempo, se non soprattutto, non fuoriesca dai binari del riavvio di un modello di sviluppo che possa chiudere tra parentesi la crisi in cui è precipitato. In altre parole queste forze hanno capito che la vecchia linea dell’austerità e del rigore ad ogni costo non poteva più funzionare, tantomeno con l’aprirsi della crisi pandemica, ma non hanno alcuna intenzione di promuovere e neppure di assistere passivamente ad un cambio di paradigma nel modello di sviluppo economico. Questo era già chiaro dal fatto che diversi segnali di frenata sono giunti dopo le prime esortazioni al facile indebitamento.

Né si può dimenticare la portata degli ammonimenti contenuti in un documento redatto dal Group of the Thirty, il G30,  un think tank di consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale. Poco prima dell’aprirsi della crisi politica italiana Mario Draghi aveva presentato, come co-presidente con il celebre economista indiano-americano Raghuram Rajan, un rapporto, redatto con Douglas Elliott di Oliver Wyman e Victoria Ivashina della Harvard Business School,  sul futuro delle imprese dopo gli shock e l’accumulo di debito e sussidi che le hanno sostenute in questi ultimi mesi. Nel rapporto viene messo sotto accusa il sostegno alle cosiddette imprese zombie, il che ha destato fondate preoccupazioni in diversi economisti, fra cui Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo che sul Financial Times hanno imputato a Draghi di esortare i governi a sostenere la “distruzione creatrice” del libero mercato, quindi di non ispirarsi a Keynes, quanto piuttosto a un Schumpeter in versione laissez-faire.