Il primo febbraio è una ricorrenza importante nella storia del nostro paese, anche se molti non lo sanno o se ne scordano: nello stesso giorno del 1945 venne dato il voto alle donne. Il decreto luogotenenziale n.23 concesse alle maggiorenni di 21 anni il diritto di voto attivo, cioè ad eleggere, mentre un decreto dell’anno successivo concederà alle donne maggiori di 25 anni anche di potere essere elette (fatta eccezione, segno dei tempi, per “le prostitute schedate che lavorano al di fuori delle case dove è loro concesso esercitare la professione”). Le donne italiane voteranno per la prima volta nel marzo del 1946 alle amministrative e poi nel referendum su monarchia o repubblica del 2 giugno 1946. La storica conquista anticipa di tre anni la Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni unite, ove all’articolo 21 si stabilisce che “Chiunque ha il diritto di prendere parte al governo del proprio paese, direttamente o attraverso rappresentanti liberamente eletti.” Ma certamente l’Italia non fu il primo dei paesi a introdurre il diritto di voto alle donne (tra i primi furono la Nuova Zelanda, nel 1893, la Finlandia nel 1907, la Russia nel 1917). La causa di questo ritardo va attribuita al fascismo. Mussolini nel 1922 in un’intervista dichiarava senza pudore che “una donna non dovrebbe essere una schiava, ma se le do il diritto di voto, sarei ridicolo”. Risultano quindi del tutto appropriate le parole che Marisa Cinciari Rodano, che ha da poco compiuto cento anni, disse presentando un libro nel 2007, secondo cui il “diritto venne riconosciuto in extremis nell’ultimo giorno utile per la composizione delle liste elettorali, alla fine del gennaio ’45 ma non fu, come taluno sostiene, una benevola concessione, ma il doveroso riconoscimento del contributo determinante che le donne, con le armi in pugno e soprattutto con una diffusa azione di massa, di sostegno alla Resistenza, avevano dato alla liberazione del Paese”.