Il discorso di fine anno del capo dello stato ha avuto un pregio indiscutibile: la brevità.

Ma forse proprio per questo avvertiamo nei contenuti qualche mancanza. Di cosa?

Anzitutto, del capo dello stato nelle sue funzioni specifiche. Mattarella ha fatto un grande sforzo per cancellarsi dal discorso. Siamo quotidianamente investiti dal pensiero preoccupato di analisti e commentatori che ci dicono come dal voto del 4 marzo non verrà una maggioranza.

Siamo usciti dalla fase dei governi prefabbricati dal sistema elettorale. Da qualche parte c’è chi scommette sul numero di giorni prima di tornare alle urne. Sul punto, Mattarella dice che dal voto esce una pagina bianca: decide il popolo sovrano, poi i partiti e il parlamento.

Da questo punto di vista, bene, si torna al paradigma di un sistema parlamentare quale la Costituzione prevede.

Ma, se le cose vanno come tanti prevedono, ci sarà un protagonista indiscusso e necessario: il capo dello stato. Le sorti del governo e della legislatura saranno nelle sue mani, ed è un compito al quale non potrà sottrarsi.

Una parola in più, per quanto cauta e prudente, sul come intenderà svolgerlo sarebbe stata gradita, e forse anche utile alle forze politiche.

Manca poi la parola eguaglianza.

Il discorso si trattiene a lungo sui malesseri del paese, sulle calamità naturali, sulle difficoltà della vita quotidiana che affliggono tanti. Viene sottolineata la questione del lavoro, e degli annessi profili dei diritti e della sicurezza. Giusto.

Ma è o non è cosa che interessa al capo dello stato che nel paese siano aumentate esponenzialmente le diseguaglianze, che i ricchi siano diventati più ricchi e i poveri più poveri, tanto da avere milioni sotto la soglia di povertà? Che la divaricazione territoriale si sia accentuata ricreando le condizioni per una migrazione di massa dal Mezzogiorno, soprattutto di giovani qualificati in cerca di una nuova speranza? È o non è cosa che lo riguardi che la faticosa uscita dalla crisi abbia nel nostro paese un segno complessivamente regressivo, e che questo derivi inevitabilmente anche dalle politiche di governo?

Non valeva la pena di qualificare con qualche ulteriore aggettivo i programmi concreti e realistici chiesti alle forze politiche in vista del confronto elettorale?

Mancano poi i diritti.

Va bene per quelli del lavoro, che non giungono peraltro a tradursi nella richiesta di una lotta alla precarietà. Ma che dire della sanità, che è ormai un miraggio irraggiungibile per tanti, o per l’istruzione, che vede cifre inaccettabili di evasione scolastica in aree difficili de paese, o un calo drammatico nelle iscrizioni universitarie?

E cosa pensare del silenzio sullo «ius soli»?

Sappiamo tutti che si sciolgono ora le camere perché la legge non aveva prospettiva di passare. Ma sappiamo anche che la questione rimarrà pienamente in campo, unitamente al problema dei migranti. Come sappiamo che nel nostro paese si è ormai creata una intollerabile discriminazione.

Da un lato abbiamo, avendo privilegiato in passato lo «ius sanguinis», cittadini italiani che sono nati e vissuti all’estero, e magari mai hanno messo piede in Italia e nemmeno pagato le tasse. Dall’altro chi è nato nel territorio italiano, che qui vive e continuerà a vivere, cui si nega il riconoscimento di un pari diritto rispetto al vicino di banco nella scuola, di pianerottolo nella casa in cui abita, di scrivania nel posto di lavoro.

Non è forse questa una fondamentale ingiustizia, e una discriminazione inaccettabile? Anche per loro dovrebbe parlare il capo dello stato. Ha intimato per mesi alle forze politiche di fare una legge elettorale omogenea, e a questo ha condizionato la fine della legislatura.

Diversamente ha fatto per lo «ius soli». Una scelta che si può anche comprendere. Ma proprio per questo una parola nel discorso di fine anno per questa massa di nuovi diseredati sarebbe stata opportuna.

Comprendiamo tutte le cautele necessarie in un discorso di fine anno dal Quirinale.

Ma non si può chiamare a comprendere e governare il cambiamento se non si pratica lo stesso principio.

Non si può chiedere a tutti di resistere alle difficoltà se nulla si dice su quello che si intende fare per fronteggiarle. Quanto più è alto lo scranno, tanto più forte deve essere l’empatia e l’adesione ai problemi di chi ascolta.

Al Quirinale vogliamo un amico degli italiani, piuttosto che un maestro del diritto costituzionale.

Ci permettiamo rispettosamente un consiglio: Presidente, la prossima volta lei ci dia del tu.

 

Massimo Villone su Il Manifesto del 2 gennaio 2018