Le Camere hanno dedicato quasi l’intera legislatura alla ricerca di una legge elettorale, senza riuscire ad approvarne una conforme alla Costituzione.
Oggi, come nella prima fase, assistiamo a esitazioni e ritardi, dopo che un periodo è stato invece caratterizzato da improvvise accelerazioni e prove di forza (anche sotto forma di voti di fiducia), che hanno condotto a una legge approvata – per una sola delle due Camere – non in base alla Costituzione vigente, ma a quella “sperata” (dalla maggioranza), una legge poi risultata incostituzionale per un vizio analogo a quello già riscontrato per il “porcellum”.
Sono state, in effetti, due dichiarazioni d’incostituzionalità (una del 2014 e una del 2017) a restituirci due leggi residue che potrebbero favorire la formazione di Camere dalla composizione assai diversa l’una dall’altra, senza che la responsabilità di ciò possa poi essere imputata al bicameralismo perfetto.
Per evitare questo, come hanno detto il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, occorre armonizzare le due leggi elettorali. Quest’obiettivo sembrerebbe meglio raggiungibile rispetto a quello dell’approvazione di una nuova legge, cui sembrerebbe mirare il susseguirsi di modelli più o meno contorti (e più che altro sempre preoccupati di lasciare saldamente in mano ai partiti la scelta degli eletti) a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi e, dopo una lunga (e ingiustificata) pausa, negli ultimi giorni.
L’armonizzazione dei sistemi, più utile ed efficace oltre che più conforme al Codice di buona condotta elettorale del Consiglio d’Europa, in base al quale il sistema elettorale «non deve poter essere modificato nell’anno che precede l’elezione», sarebbe realizzabile in sette semplici mosse.
La prima per eliminare il premio di maggioranza alla Camera. Un premio di maggioranza può risultare conforme alla Costituzione soltanto a una serie di condizioni, una delle quali è la sua idoneità a conseguire l’obiettivo della stabilità di governo. Con due Camere che devono esprimere la fiducia, se – come in questo momento – il premio fosse attribuito in una sola, esso sarebbe inidoneo al conseguimento dell’obiettivo; se, invece, fosse previsto per entrambe le Camere, potrebbe portare al paradossale esito di essere attribuito a forze politiche diverse, rendendo particolarmente difficile (più di quanto avvenga con un proporzionale senza correttivi) la formazione di un Governo ed eventualmente la sua successiva stabilità. D’altronde, l’attribuzione del premio solo quando spetti alla stessa lista in entrambe le Camere contrasterebbe con l’autonoma elezione di ciascuna di esse contemplata nella Costituzione.
La seconda mossa consisterebbe nella previsione di una soglia di sbarramento unica per la Camera e il Senato, abbassando quella prevista per quest’ultimo (attualmente all’8% in ciascuna Regione) ed eventualmente elevando quella vigente per la Camera (3%), un punto di incontro potendo essere rappresentato, ad esempio, dal 4%.
Come terza mossa dovrebbero essere eliminate le coalizioni anche al Senato. Queste, infatti, non hanno alcun senso e non a caso non sono previste in nessun altro sistema elettorale. Infatti, ciascuna forza politica, in democrazia, si presenta con un proprio programma sul quale intende ottenere la maggioranza. Se la coalizione ha lo stesso programma non si comprende perché dovrebbero esservi liste concorrenti, mentre se il programma delle liste è diverso non ha senso presentarsi insieme.
La quarta mossa è forse quella oggi più sentita dall’opinione pubblica: l’eliminazione dei capilista bloccati, dando agli elettori la possibilità di scegliere tra tutti i candidati, senza che nessuno sia “raccomandato” dal partito.
A questo si collega la quinta mossa: l’introduzione anche al Senato della preferenza di genere, in conformità dell’art. 51 della Costituzione, per riequilibrare la rappresentanza anche da questo punto di vista.
Con la sesta mossa, poi, dovrebbero essere eliminate – o almeno ridotte a non più di tre – le candidature plurime (cioè la possibilità di presentarsi in più collegi o circoscrizioni).
Infine, settima mossa, dovrebbero essere previsti collegi analoghi a quelli indicati nella legge della Camera anche per il Senato (naturalmente nell’ambito di circoscrizioni regionali).
A queste semplici mosse di armonizzazione della legge elettorale se ne potrebbero aggiungere due di rango costituzionale: la prima, a mio avviso più urgente e realizzabile, consisterebbe nel portare l’elettorato attivo per il Senato alla maggiore età, come per la Camera; la seconda, meno agevole, nel ridurre i deputati da 630 a 470 e i senatori da 315 a 230.
Ancora una volta, in sostanza, il Parlamento si trova di fronte all’alternativa tra una piccola riforma efficace e la ricerca di una “grande riforma” dall’incerta confezione e dai dubbi esiti.
Andrea Pertici su Il Fatto Quotidiano