articolo di Alfonso Gianni su Il Manifesto del 8.2.2017 
Pare che finalmente manchi poco alla pubblicazione delle motivazioni che hanno condotto la Corte Costituzionale ad esprimersi sull’Italicum. Giovedì prossimo i 13 giudici leggeranno la sentenza approntata dal relatore, che verrà resa nota pochi giorni dopo. Se l’essenziale è già stato scritto nel comunicato del 25 gennaio – bocciato solo il ballottaggio mentre restano l’abnorme premio di maggioranza e gli indigeribili capilista bloccati -, le motivazioni potranno forse indirizzare la discussione verso lidi meno incerti e melmosi. Ove allignano ogni sorta di accusa e di mercanteggiamento. Il tutto fa parte di quel clima di restaurazione che si vorrebbe imporre dopo la grande vittoria popolare – non populista- del 4 dicembre. Il tentativo è quello di derubricare un obbligo/diritto democratico – quello di avere al più presto un parlamento eletto con una legge costituzionalmente legittima – in una querelle politica su chi trarrebbe maggiore profitto da una interruzione della legislatura o dal suo contrario. Così si perpetua la logica politicista e a-democratica che ha guidato le ultime riforme elettorali finite sotto la tagliola della Consulta.
Emergono ora i guasti profondi provocati dal non scioglimento del parlamento dopo la sentenza 1/2014 della Consulta sulla incostituzionalità del Porcellum. Quest’ultima considerava sì le elezioni avvenute in base a norme illegittime “un fatto concluso”; ribadiva il principio fondamentale della continuità dello Stato e quindi dei suoi organi costituzionali, ma quando si spingeva a esemplificazioni citava solamente la proroga delle camere fintanto che non vengono convocate le nuove (art. 61 Cost.) e nel caso della conversione di decreti – legge già in vigore (art. 77 Cost.). Casi limitati temporalmente che avrebbero dovuto sconsigliare la prosecuzione per ben tre anni dell’attuale parlamento, che ha votato, con l’apposizione della questione di fiducia, una legge elettorale ancora peggiore e la  manipolazione del dettato costituzionale.  Ma Napolitano aveva altro per la testa, cioè la revisione della Costituzione la cui paternità Renzi gli ha attribuito. La sonora sconfitta non è bastata. Ora riparte la girandola. Renzi vuole le elezioni a giugno soprattutto perché teme i rimbalzi negativi di una nuova manovra restrittiva nella prossima legge di Bilancio. I suoi messi  corrono dalla minoranza del Pd, come da Alfano e Berlusconi per vedere se si può scambiare un voto anticipato a giugno con un premio di maggioranza ad una coalizione anziché ad una lista, con il che si vorrebbe resuscitare il cadavere di un centrosinistra aperto a destra. Davvero lungimirante!  Franceschini ha fatto sapere che ci sta. Gli altri della minoranza dem nicchiano, memori del precedente bluff dell’intesa Renzi – Cuperlo. Rilanciano chiedendo il congresso. Come se il diritto dei cittadini di andare a votare con leggi costituzionali fosse scambiabile con un appuntamento congressuale interno a una forza politica. Ma proprio l’Italicum ha reso di difficile applicazione le regole sulle coalizioni che pure sopravvivono nella normativa elettorale del Senato. La strada del poco astuto mercimonio è irta di difficoltà difficilmente sormontabili. Se si vuole l’armonizzazione tra le due camere, essa non può avvenire che  abbattendo le soglie di ingresso  troppo alte previste al Senato, che rendono diseguali gli effetti del voto tra i due rami del parlamento e quindi sono incostituzionali. Ma soprattutto, se si ha a cuore il principio dell’uguaglianza e della libertà del voto (art. 48 Cost.), non si può che eliminare il premio abnorme conferito ad una minoranza del 40% e il sistema dei capilista bloccati (il sorteggio non tura la falla). La Consulta li ha lasciati in piedi, venendo meno alla coerenza con la sua stessa giurisprudenza. Di un parlamento come quello attuale vi è poco da fidarsi, se lasciato a sé stante. Quindi la lotta non è finita. I Comitati del 4 dicembre devono restare e sono in campo per  una legge elettorale proporzionale priva di distorsioni, che attui il principio della rappresentanza giubilato in questi anni da quello della governabilità, peraltro praticata in modo pessimo con guasti enormi per il Paese.