La politica è – del tutto fisiologicamente – teatro. Ma talvolta diventa piuttosto un teatrino, come nella conversione in legge del decreto green pass. Prima le parole apparentemente ferme di Draghi in conferenza stampa sull’obbligo vaccinale, cui ha fatto seguito Mattarella con un richiamo al dovere di vaccinarsi. Poi il voto della Lega favorevole ad alcuni emendamenti soppressivi, respinti dalla restante maggioranza. È seguita una trattativa tra Draghi e Salvini. In Consiglio dei ministri spariscono estensione del green pass e obbligo vaccinale, salvo un’ipotesi minimale per personale esterno di scuole e università, e residenze per anziani. Il sipario cala con il voto finale sulla legge di conversione: 293 votanti, 259 sì, 34 no, 2 astenuti.

Una sceneggiata. L’elettorato leghista è in larga misura favorevole all’obbligo vaccinale e al green pass, sul quale spingono persino i governatori leghisti di punta. Ma il ben noto Borghi interviene in aula, attaccando su tutta la linea ed elencando puntigliosamente i risultati ottenuti dalla battaglia della Lega. Tutto si comprende meglio pensando al prossimo voto amministrativo, in cui sarà centrale la competizione tra Lega e FdI. Tutti grattano il fondo del barile, perché nessuno possiede certezze sul dopo Mattarella. Salvini mostra di avere – almeno per adesso – il controllo del partito e del gruppo parlamentare, visto che è riuscito comunque a portare la truppa allo scontro.

Ma una lezione c’è: la dimostrazione che Draghi è ricattabile. Da gran parte della stampa governista si trae il messaggio di una sua essenziale saggezza e prudenza. Può darsi. Ma un elemento di debolezza si intravede. I casi sono due: o Draghi ha detto troppo in conferenza stampa, o non ha saputo tenere ferma la barra del timone dopo. In entrambi i casi ne esce male. E a quanto pare chi batte i pugni sul tavolo trova ascolto e ottiene risultati. Dunque, chi si dichiara draghiano senza se e senza ma si mette la mordacchia da solo. Non serve stare alla larga dai temi che il governo vuole tenere per sé. Quel che rimane non è detto che basti. Così, il Pd non può pensare di schiodarsi da quel triste 18-20% consegnato dai sondaggi con lo ius soli e il ddl Zan, o l’accoglienza dei migranti e ora dei profughi afghani. Lo stesso vale per la sinistra che sommando fino all’ultimo frammento non arriva alla doppia cifra. Sono battaglie benemerite e assolutamente da fare, ma non sufficienti.

L’Italia potrebbe e dovrebbe cambiare faccia nei prossimi anni, soprattutto con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Qui vanno piantate le bandiere. Che fare per le morti sul lavoro, per la disoccupazione in specie giovanile, per la desertificazione produttiva del Mezzogiorno e per il divario Nord-Sud, per l’Ilva di Taranto, per gli ammortizzatori sociali, per le scuole e le università, per le delocalizzazioni selvagge, per la transizione energetica che qualcuno vorrebbe volgere al gas o addirittura al nucleare, per l’eolico offshore e il fotovoltaico, per la riforma della sanità? Che fare sull’autonomia differenziata, su cui i governatori leghisti di nuovo battono la grancassa? Che fare sulla legge elettorale? I tavoli sui quali confrontarsi sono tanti. Farlo costruirebbe identità e progetto politico.

E il M5S? Sarebbe stata necessaria ben altra robustezza di pensiero e di organizzazione per stabilizzare il mirabolante risultato del 2018. Non bastavano certo a tal fine le parole d’ordine, dai vitalizi al taglio dei parlamentari, dal Tav alla sconfitta della povertà. Il travaglio del Movimento ha generato una soggettività politica incerta e multiforme, che si riflette oggi anche sul green pass e sull’obbligo vaccinale. Nei sondaggi, l’elettorato leghista si mostra assai più compattamente favorevole di quello M5S. Mentre colpisce il pellegrinaggio pre-elettorale di Conte nelle piazze del Nord, che non cambierà certo la (probabilmente triste) sorte del Movimento in quei territori. E che ci ricorda, inoltre, come con il taglio dei parlamentari e le prospettive grame la più dura battaglia interna nel Movimento si aprirà con il voto di fine legislatura.

La vicenda oggi conclusa conferma che la fragilità italiana è tutta nei soggetti politici. Si traduce nella incapacità di fare ciò che è ovvio: scrivere in legge un obbligo di vaccinazione, eventualmente anche generale. Unica scelta opportuna, razionale, e conforme alla Costituzione.