articolo di Massimo Villone su Repubblica Napoli, 18 febbraio 2017
La scissione del Pd sembra avvicinarsi. Una fitta agenda di incontri ci separa dall’assemblea del partito. Ci interessa? Può sembrare una guerra di ceto politico, per una parte tale è, e potremmo ben dire che non ci riguarda. Ma c’è molto altro, e per quello ci interessa.
Perché accade? La causa scatenante è il voto del 4 dicembre. Non era pensabile che un massiccio no popolare rimanesse senza conseguenze per Renzi. Né si poteva pensare che lo tsunami non toccasse il partito, strumento troppo docile della perduta scommessa renziana. Soprattutto perché nel voto referendario troviamo il momento terminale di un processo lungo, iniziato con la scalata di Renzi prima sul partito, e poi su Palazzo Chigi con la cacciata di Letta. Le tensioni di oggi scoppiano perché Renzi mostra di voler gestire il dopo referendum unicamente nella chiave di mantenere il controllo del Pd e tornare a Palazzo Chigi nei tempi più brevi. In realtà, tutto quello che oggi accade fa capo a Renzi, per due ragioni principali.
Anzitutto, per il suo modo di gestire la carica di segretario. Un partito non è un’aula parlamentare, in cui per decidere si alzano le mani e ci si conta. Non si può condannare la minoranza alla totale irrilevanza politica, magari con l’aggiunta dell’irrisione e dello sberleffo. Un partito vitale cerca la convivenza e la sintesi tra le sue varie anime. Nella gestione di Renzi la rottamazione non è stata solo un cambio generazionale, che poteva anche essere opportuno. È stata la sostanziale cancellazione di una delle identità costitutive originarie del PD – quella di sinistra – concretamente certificata dall’abbandono di molti militanti e dalla perdita di radicamento territoriale.
Inoltre, questa gestione si traduce nelle politiche del governo Renzi, di orientamento centrista e moderato. La sola cosa di sinistra che vediamo negli anni di Renzi sono, non senza limiti, le unioni civili. Troppo poco per bilanciare il Jobs Act, la cosiddetta buona scuola, le trivelle, la riforma Rai, la riforma della pubblica amministrazione. Il voto del 4 dicembre non è stato solo un no a una pessima riforma della Costituzione, ma anche un no al Pd di governo e alle sue politiche, spesso attuate contro mondi di riferimento storicamente vicini alla sinistra e al Pd.
Ecco perché la scissione Pd interessa tutti. Perché il Pd come è non ha fornito le risposte utili a portare il paese fuori dalla crisi, a contrastare l’aumento delle diseguaglianze, a favorire l’esercizio di diritti essenziali come l’istruzione e la sanità, a ridurre la separazione tra paese forte e paese debole. L’Italia è un paese in cui milioni di persone sono nell’area della povertà assoluta, in cui per tantissimi l’aspettativa di vita si riduce perché non possono più curarsi, in cui la precarietà aumenta in misura esponenziale, in cui i giovani continuano a non avere lavoro o speranza.
Soprattutto il Mezzogiorno ha bisogno di risposte a questo. Non per caso il 4 dicembre il Mezzogiorno si è espresso così fortemente per il no. E possiamo dire che oggi ha uno specifico interesse alle convulsioni che scuotono il Pd.
È nel recupero di una identità smarrita e nel cambio radicale delle politiche di governo che si trova la parte di ragione nobile – ancorché non a tutti immediatamente visibile – dello scontro in atto nel Pd. Lo scontro sembra centrato sul segretario perché lo stesso Renzi ha – come qualcuno dice – tradotto il Pd in PdR: partito di Renzi. Ma l’oggetto del contrasto va ben oltre la persona del segretario.
Rimane aperta la domanda: ma se la scissione ci fosse, cosa ne verrebbe? Dipende. Lo scenario immediato è quello di una sinistra che vuole rinascere, ma rimane al momento frammentata e priva di un progetto comune in grado di competere. Anche qui vediamo il rischio di una guerra solo di ceto politico, peggio se ancorata alla probabilità di ottenere dal Pd qualche strapuntino di governo. Molto dipenderà da come sarà scritta la nuova legge elettorale. Personalmente sono convinto che per far ripartire il paese è indispensabile ricostruire forme organizzate della politica strutturate e stabili, e mettere in campo una sinistra capace di riscoprire se stessa e i propri valori storici. Per questo un impianto proporzionale è quel che serve. Ma è ovvio che gli interessi in campo sono molteplici, e contrastanti.
Una cosa però è certa. Non avevamo e non abbiamo alcuna necessità di una fase costituente per la Carta fondamentale. Invece, avevamo e abbiamo la necessità ineludibile di una fase costituente per la politica.