Articolo di Antonio Pileggi su Rivoluzione Liberale

È d’obbligo una prima lettura a caldo dei risultati elettorali delle amministrative del giugno 2016.

Ha continuato a vincere il partito dell’abbandono delle urne, il partito della non partecipazione dei cittadini alla vita politica.

Ma attenzione.

Non ha vinto l’antipolitica guidata dal suo principale interprete, lo statista del Valdarno, che vuole la rottamazione, con l’uso del “lanciafiamme”, per bruciare anche la Costituzione.

Non ha vinto il partito dei nemici della partecipazione attiva dei cittadini. Il partito che ha lo scopo di limitare ai propri “clienti” e finanziatori l’impegno attivo nella politica e nell’occupazione dei palazzi del potere. Gli altri, i semplici cittadini, dovrebbero essere scoraggiati dal partecipare e dovrebbero lasciarsi “asfaltare” dalla scuola di pensiero secondo cui il potere logora chi non ce l’ha.

Perde la politica considerata un affare. Perde chi voglia avere a che fare con un comitato elettorale, o con un partito liquido, o con un partito con un uomo solo al comando.

Perde l’idea che per fare politica ci vogliano tantissimi soldi, tantissimi manifesti attaccati sui muri delle città, tantissime ore nei salotti televisivi, tantissimi media asserviti.

Perde l’idea secondo cui l’occupazione e il possesso delle televisioni, (l’appropriazione della RAI è già avvenuta), possano essere sufficienti a far vincere qualsiasi competizione elettorale.

Perde l’idea di un partito padronale e leaderistico concepito e guidato alla stregua di un comitato elettorale e interessato all’occupazione dei palazzi del potere.

Perde il partito liquido inventato al lingotto di Torino.

Perde il non partito della Leopolda, unico al mondo che ha eletto il proprio capo con i voti dei non iscritti reclutati alla bisogna nel momento delle così dette primarie all’italiana.

Perde il capo del governo che, da pubblico ufficiale posto al servizio della Nazione, aveva invitato di recente i cittadini a non recarsi alle urne in un dispendioso referendum che lui medesimo avrebbe potuto evitare se avesse avuto un minimo di umiltà e di capacità di ascolto innanzi alle Regioni costrette, per ottenere ascolto dal Governo, a deliberare la richiesta della consultazione referendaria per la prima volta nella storia della Repubblica.

Perde a Roma il candidato che si è auto definito l’uomo del “sì” e che è stato valutato, per l’appunto, come l’uomo del “sì”  e del signorsì al suo capo partito. Il medesimo capo partito e capo di governo che, con atti di imperio, ha proceduto alla defenestrazione del sindaco Marino, di stampo PD, raccogliendo le dimissioni dei propri consiglieri presso uno studio notarile per sottrarsi al doveroso dibattito sullo scandalo di Roma Capitale e sul degrado della città nella sede istituzionale del Consiglio Comunale.

Ha vinto nettamente, in 19 città su 20 nelle quali era impegnato nei ballottaggi, un movimento politico, il M5S, che non ha grandi risorse finanziarie per farsi propaganda, ma che ha avuto la capacità di coinvolgere, nel territorio e nel web, donne e uomini motivati dalla passione politica. Un movimento che dispone di volontari impegnati a contagiare i cittadini nella necessità della “partecipazione attiva”. Un movimento che ha saputo interpretare e rappresentare il malessere dei cittadini e i bisogni delle città in alternativa alla voglia di potere egemonico ed arrogante del renzismo.

Le parole chiave vincenti vengono fuori ascoltando le parole dei nuovi Sindaci di Roma e Torino.

Ecco alcune locuzioni significative: coesione e partecipazione di tutti i cittadini, non coesione e partecipazione degli occupanti delle istituzioni; lungo cammino di partecipazione, non improvvisazione; il noi della partecipazione, non l’io del comando; volontariato e passione, non apparati e politicanti di professione; rigorosa temporaneità degli incarichi pubblici; governare per tutti, anche per chi non abbia votato il governante di turno.

Non sono le parole divisive e gli slogan di Renzi sulla velocità, sulla semplificazione e sulla necessità di avere un solo uomo al comando. Non sono gli slogan che volutamente ignorano l’insegnamento di Benedetto Croce: “non vi sono se non due sole posizioni politiche contrastanti: la liberale e l’autoritaria”.

La prudenza impone di non sopravvalutare ogni velleitarismo e ogni programma elettorale che sono da mettere sempre alla prova dei fatti e sotto la lente dell’etica della responsabilità. E di non sottovalutare la forza che sprigiona dal disagio e dalla emarginazione sociale innanzi alla mala amministrazione e all’arroganza del potere. Una emarginazione destinata comunque a pesare in modo determinante nei processi di formazione della volontà di chi decida di usare la matita del voto.

Quando scendiamo in strada a raccogliere le firme in questa lunga stagione referendaria contro le riforme liberticide di Renzi, Boschi e Verdini, possiamo toccare con mano quanto sia importante la scuola di pensiero che tende a  rendere concreto e motivato il diritto alla partecipazione. Un diritto alla partecipazione che sappia coinvolgere tutte le diverse composizioni sociali, dai primi agli ultimi. È l’idea del premio Nobel Wole Soyinka, che avvertiva, fin dall’inizio del terzo millennio, la necessità di porre la partecipazione nell’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e in tutti i primi articoli delle Costituzioni di tutti i Paesi del Pianeta.

Partecipiamo alla battaglia di ottobre per dire un sonoro NO allo stravolgimento della Costituzione italiana, che si può cambiare, ma non stravolgere a sostegno della “resistibile ascesa” di un uomo solo al comando; per dire un NO alle riforme divisive e liberticide del rottamatore di Rignano, che è capo del suo partito e del Governo.

Sarà una battaglia decisiva per il futuro della democrazia e della coesione sociale nel nostro Paese.