Camera dei Deputati: audizione di fronte alla Commissione (affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni) sul D.D.L. costituzionale a.c. 2613-b

Prof. Mauro volpi

28 ottobre 2015

Ringrazio il Presidente della Commissione e i deputati che ne fanno parte per l’invito che mi è stato rivolto. Un anno fa (esattamente il 20 Ottobre 2014) sono stato audito da questa Commissione sul disegno di legge costituzionale prima che fosse approvato con modifiche dalla Camera e successivamente dal Senato. In quella sede ho espresso un giudizio fortemente critico sulla revisione costituzionale in atto. Mi propongo pertanto di valutare se, alla luce delle modificazioni apportate al d.d.l. ora sottoposto all’esame della Camera, quel giudizio vada ripensato o debba essere confermato.

  1. In linea generale ritengo che le modificazioni apportate dal Senato il 13 ottobre 2015 al testo approvato dalla Camera il 10 marzo 2015 non siano state qualitativamente molto rilevanti anche a causa della applicazione rigida che è stata data della regola della “doppia lettura conforme” (art. 104 Re. Se.). Ciò è derivato a mio avviso da ragioni politiche e dalla volontà del Governo di accelerare i tempi, mentre una diversa interpretazione, fondata sulla considerazione che il procedimento di revisione costituzionale non può essere considerato alla stregua del procedimento legislativo ordinario, dovrebbe riconoscere a ciascuna Camera il potere di apportare modifiche al testo approvato dall’altra anche successivamente alla prima delibera.

  1. La modificazione che è stata da alcune parti propagandata come la più rilevante riguarda le modalità di elezione del Senato, inserita nel comma 5 dell’art. 2 del d.d.l. Qui si impone innanzitutto un rilievo di forma, che acquista particolare importanza nel momento in cui si va a toccare il testo della Costituzione. La modifica che fa riferimento alle “scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo” degli organi “dai quali sono stati eletti” è stata inserita non nella sua sede naturale, il comma 2 dell’art. 2 che ha ad oggetto l’elezione dei Senatori da parte dei Consigli regionali e dei Consigli delle Province autonome, ma nella disposizione che riguarda la durata in carica dei Senatori. Si è parlato a tal proposito di “bizantinismi costituzionali”. Ma io credo che si tratti di una vera e propria mortificazione del testo della Costituzione, che i nostri padri costituenti vollero il più chiaro e accurato possibile, anche facendo ricorso a competenze linguistiche e letterarie esterne (Pietro Pancrazi) o interne (Concetto Marchesi) all’Assemblea Costituente. È sconsolante doverlo dire, ma questo modo di procedere, oltre a creare problemi di comprensione del testo, finisce per degradare la Costituzione ad un regolamento di condominio, nel quale quella che conta è la volontà dei singoli condomini comunque espressa. Nella sostanza la modificazione citata presenta una notevole dose di ambiguità, che consente agli uni di parlare di un’elezione popolare dei Senatori, agli altri di ribadire che si tratta di elezione indiretta ad opera dei Consigli regionali. L’ambiguità è già insita nel termine impiegato: “scegliere” non è come “eleggere”, ma implica solo che gli elettori saranno chiamati a dare un’indicazione non necessariamente vincolante per i Consigli regionali. Tant’è che il relatore on Fiano nella presentazione del d.d.l., tenuta nella seduta di questa Commissione del 21 ottobre 2015, parla di “individuazione delle modalità con cui le scelte degli elettori incideranno [corsivo mio] sull’elezione dei senatori da parte dei consigli regionali e provinciali”. Tali modalità saranno stabilite dalla legge bicamerale di cui al comma 6 dell’art. 2 e dalle normative elettorali di attuazione delle Regioni. E qui si annidano problemi di non facile soluzione che rendono altamente improbabile una “elezione popolare” dei Senatori. E infatti come conciliare la previsione del comma 5 con quella che al comma 2 stabilisce che l’elezione dei Consiglieri-Senatori avvenga “con metodo proporzionale” e ancora di più con la previsione di cui al comma 6 che i seggi siano attribuiti “in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”? Evidentemente il d.d.l. quando parla di proporzione fa riferimento alla consistenza dei gruppi consiliari e aggiunge poi una condizione, quella dei “voti espressi” già di per sé difficilmente conciliabile con quel criterio, visto che tutte le leggi elettorali regionali attribuiscono un premio di maggioranza consistente che altera notevolmente la proporzionalità nella trasformazione dei voti in seggi. Si aggiunga poi la difficoltà derivante dal fatto che otto Regioni e le due Province autonome eleggeranno solo due Senatori (di cui uno Sindaco e quindi non soggetto alle “scelte” degli elettori del Consiglio regionale). Per dare attuazione all’improbabile elezione popolare di cui al comma 5 si parla di reintroduzione di listini regionali, che non potrebbero non essere collegati ai candidati-Presidenti, con ciò riesumando un istituto che ha dato cattiva prova ed è stato aspramente criticato, in quanto consentiva l’elezione a consigliere di personalità collegate al candidato vincente scelte dall’alto e non soggette ad alcun voto popolare. Si ventila allora il ricorso al voto di preferenza, ma in tale ipotesi può accadere che il candidato che ha avuto un maggior numero di preferenze popolari sia escluso a vantaggio di quello meno “preferito”, ma appartenente ad una lista più forte, magari perché collegata al candidato-Presidente vincente, e quindi legittimata ad esprimere il Senatore in applicazione del “metodo proporzionale”. Insomma quel che viene fuori è un grande pasticcio, dal quale non solo una legge di revisione della Costituzione, ma qualsiasi testo normativo dovrebbe rifuggire. Qui non si tratta di “bizantinismi costituzionali”, ma di trovate furbesche della politica che rendono ambiguo e incerto il testo della Costituzione.

  1. Il pasticcio prodotto dalla modificazione del comma 2 dell’art. 5 non è attenuato dalla modifica del comma 11 della norma transitoria (art. 39). Anche qui l’applicazione rigida della regola della doppia lettura conforme ha prodotto il risultato che nella disposizione transitoria convivono due diversi termini per l’approvazione della legge bicamerale sulle modalità di elezione dei membri del Senato: quello di sei mesi dalla data di svolgimento delle elezioni della Camera (comma 6, che il Senato ha lasciato intatto in quanto non modificato dalla Camera) e quello di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale (comma 11). Ora, è evidente che si tratta di due disposizioni tra loro contraddittorie, in quanto, anche nell’ipotesi che la Camera fosse sciolta subito dopo l’approvazione della legge costituzionale, i tempi necessari per l’indizione delle elezioni e per il loro svolgimento renderebbero impossibile una coincidenza temporale fra i due termini. Potrebbe quindi manifestarsi un serio dubbio interpretativo su quale delle due disposizioni debba essere applicata. E se le Camere ritenessero meramente ordinatorio il termine di cui al comma 11 e applicassero quello di cui al comma 6, nessuno potrebbe sostenere che violerebbero la legge costituzionale. In tanta confusione una cosa è certa: il nuovo Senato, a meno di ipotizzare un improbabile e improponibile scioglimento simultaneo di tutti i Consigli regionali, sarà costituito per gradi. Ciò significa che, se la legislatura giungesse al suo termine naturale, anche ipotizzando che la legge bicamerale sulle modalità di elezione dei Senatori sia approvata entro sei mesi dalla entrata in vigore della legge costituzionale e le conseguenti normative elettorali regionali entro i novanta giorni successivi, i Consiglieri-Senatori potrebbero essere “scelti” dal corpo elettorale solo nelle cinque Regioni il cui Consiglio scade entro la primavera del 2018 (Lombardia, Lazio, Molise, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), mentre in tutte le altre i Consiglieri sarebbero eletti come Senatori dai rispettivi Consigli secondo le modalità stabilite dal comma 1 dell’art. 39, senza alcuna “scelta” da parte del corpo elettorale. In termini numerici ciò significa che sui 74 Senatori-Consiglieri ben 51 sarebbero eletti dai Consigli in sede di prima applicazione della legge. A questi sono da aggiungere i 21 Sindaci per i quali è scontato che l’elezione spetti esclusivamente ai Consigli regionali, visto che il nuovo art. 2 comma 2 richiama le scelte espresse dagli elettori solo per i candidati Consiglieri. Insomma nel primo Senato costituito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale su 95 Senatori elettivi 72 sarebbero eletti dai Consigli senza alcuna indicazione da parte degli elettori. Rimane inoltre intatta la scelta di fondo che i Senatori elettivi siano Consiglieri regionali o Sindaci, il che è molto raro negli ordinamenti che prevedono una seconda Camera eletta indirettamente, i quali prevedono, o almeno consentono, che a candidarsi alla elezione siano i cittadini e non, o non necessariamente, i membri delle Assemblee elettive territoriali (nell’ambito dell’Unione Europea l’unica eccezione è il Belgio, dove dopo la riforma costituzionale del 2014 diventano Senatori i membri dei Parlamenti della Comunità linguistiche). Inutile dire che la scelta dei Senatori tra Consiglieri regionali o parlamentari degli Stati membri è inesistente nei non pochi ordinamenti che prevedono l’elezione popolare della seconda Camera. Il cumulo delle cariche che verrebbe a realizzarsi sarebbe assolutamente negativo per il buon esercizio delle funzioni e l’autorevolezza dei futuri Senatori sarebbe seriamente compromessa e ridotta rispetto a quella che all’interno del sistema delle Conferenze possono giocare i Presidenti delle Regioni e i Sindaci delle grandi città.

  1. Quanto alle funzioni della seconda Camera, nelle modificazioni apportate dal Senato le novità sono molto ridotte. Per quelle legislative rimane la discrasia tra funzioni bicamerali, che comprendono le leggi costituzionali, e un Senato non eletto direttamente dal popolo, ma formato da Consiglieri regionali, titolari di competenze legislative ridimensionate, e da Sindaci, che di competenze legislative non ne hanno alcuna. Anche la restituzione al Senato della competenza di eleggere due dei cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare non si giustifica affatto alla luce della composizione debole e indiretta della seconda Camera e più in generale solleva perplessità sulla possibile configurazione dei due giudici come “avvocati delle Regioni”. Dubbi più che fondati possono poi esprimersi sulla capacità politica del Senato di incidere sulla legislazione di competenza della Camera, la cui maggioranza potrà facilmente mettere nel nulla le proposte formulate dal Senato, per cui il principale risultato da attendersi è che i numerosi procedimenti legislativi che emergono dal d.d.l. verranno a costituire una enorme complicazione (altro che semplificazione!) e potranno essere fonte di una improduttiva conflittualità. Quanto alle novità per cui il Senato non “concorre alla valutazione”, ma “valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori”, si tratta di formule generiche che potranno essere riempite o svuotate da future leggi approvate dalla maggioranza della Camera, le quali dovranno indicare quali saranno gli atti, gli strumenti e le procedure di valutazione e di verifica di cui il Senato potrà avvalersi. Rimane poi del tutto aperta la questione della elezione degli organi di garanzia. Qui si tocca con mano quanto sia negativa e pericolosa la riduzione drastica del numero dei Senatori rispetto al mantenimento dell’attuale numero dei deputati, nonostante che il dibattito sulle riforme costituzionali degli ultimi venti anni abbia sempre prospettato una riduzione contestuale e bilanciata dei componenti delle due Camere. Ma evidentemente calcoli di convenienza politica hanno fatto premio sulle ragioni della coerenza costituzionale. È evidente che il peso specifico ridotto del Senato riduce la valenza dei quorum di garanzia per l’elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti laici del CSM. È vero che per il Capo dello Stato già la Camera aveva provveduto ad elevare il quorum ai tre quinti dei componenti del Parlamento in seduta comune, ma dopo il settimo scrutinio ha reso sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti. Diventa quindi possibile “il rischio di un capo dello Stato «scelto» da chi vince le elezioni” (come ha spiegato D’Alimonte, non certo ostile alla riforma, su Il Sole 24 Ore del 29 settembre 2015). Anche qui da venti anni si discute della necessità di elevare i quorum di garanzia, e in passato vari disegni di legge costituzionale sono stati presentati in proposito, in un contesto di tipo maggioritario, nel quale una maggioranza più che assoluta della Camera è fabbricata artificialmente dall’attribuzione di un premio abnorme. Ne deriva che le maggioranze qualificate dovrebbero sempre essere calcolate sul numero dei componenti, se vogliono svolgere un ruolo di effettiva garanzia.

  1. Poche parole sul Capo IV del d.d.l. che contiene modifiche al Titolo V della Parte II della Costituzione. Qui le uniche novità introdotte dal Senato riguardano l’art. 116 comma 3 della Costituzione, vale a dire il cosiddetto “regionalismo differenziato”, con l’inserimento fra le materie che possono essere attribuite alle Regioni in condizioni di equilibrio tra entrate e spese con legge approvata dalle Camere (non più a maggioranza assoluta, ma semplice) sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata, le “disposizioni generali e comuni per le politiche sociali” e il “commercio con l’estero”. Il rischio è che in questo modo si dia vita ad un puzzle indigeribile e difficilmente accettabile da parte dei cittadini, che non sono certo responsabili delle scelte finanziarie operate dalla Regione nella quale risiedono. La confusione è aumentata dalla previsione ex comma 13 art. 39 che l’art. 116 comma 3 si applichi in via transitoria anche alla Regioni a statuto speciale e che tale applicazione diventi definitiva dopo la revisioni degli Statuti. Rimane quindi un’ambiguità di fondo sul tipo di regionalismo che si intende adottare, se legislativo o prevalentemente di esecuzione e sull’opportunità o meno di mantenere il regionalismo differenziato determinato dall’esistenza delle Regioni a statuto speciale. L’unica cosa certa è che viene operata una ricentralizzazione dei poteri che, se da un lato pone rimedio ad alcuni eccessi introdotti dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, dall’altro comprime il ruolo delle Regioni e ne riduce l’autonomia finanziaria (già compromessa dalla legge costituzionale n. 1 del 2012 sul cosiddetto “pareggio di bilancio”). In definitiva mi pare che si sia persa l’occasione di affrontare i nodi fondamentali dello Stato regionale italiano che possono compendiarsi nei seguenti termini: quale regionalismo e quali Regioni (il che dovrebbe comportare anche una discussione seria e partecipata sulla revisione dell’attuale assetto eccessivamente frammentato).

  1. In conclusione restano intatte le ragioni di fondo che mi avevano spinto un anno fa ad una valutazione fortemente critica, rispetto alle quali le ultime modificazioni del d.d.l. non recano cambiamenti significativi. Ritengo infatti che dal combinato disposto della nuova legge elettorale “italica” (n. 52 del 2015) con la “riforma” costituzionale derivi un cambiamento surrettizio della forma di governo da parlamentare a iperpresidenziale, ma non “presidenziale”, in quanto priva dei contrappesi che caratterizzano il sistema di governo degli Stati Uniti, e venga ad essere pregiudicato l’equilibrio fra i poteri (come ho ampiamente argomentato nella relazione ad un recente seminario della Associazione italiana dei costituzionalisti, tenutosi a Bologna l’11 giugno 2015). Avremmo quindi una forma di governo a “Premierato assoluto”, per richiamare l’espressione con la quale Leopoldo Elia qualificò nel 2005 la riforma della seconda parte della Costituzione approvata dall’allora maggioranza di centro-destra e poi bocciata dal referendum popolare del 25/26 giugno 2006, o, se si preferisce, una forma di governo “non parlamentare del primo ministro”, che “senza idonei contrappesi può diventare un modello preoccupante”, come ha dichiarato Luciano Violante in un’intervista a La Stampa dell’1 maggio 2015.

Infine mi sia consentito criticare il tentativo mediatico in corso di trasformare il referendum costituzionale ex art. 138 Cost. in uno strumento plebiscitario di approvazione della legge costituzionale concesso dal Governo e dal Presidente del Consiglio. Non è così: il referendum costituisce un diritto che le opposizioni possono esercitare qualora la legge costituzionale sia approvata, anche in una sola delle due Camere, con una maggioranza inferiore ai due terzi dei componenti.