Da Il Mainfesto —  Massimo Villone, 27.4.2015
La Consulta e la riforma Renzi. Può accadere ora con l’Italicum ciò che poteva accadere con il Porcellum? Certamente sì

Renzi scrive ai democratici che è in gioco il futuro del partito. Può darsi. Ma non dice che tutto viene dalla sua continua e arrogante prevaricazione per riforme istituzionali utili al suo populismo plebis- citario, e non al paese.

Minaccia questioni di fiducia a raffica per mettere la mordacchia al dissenso Pd, ha ipotizzato di imbavagliare persino le pregiudiziali. Una pregiudiziale di costituzionalità sull’Italicum è giustificata, perché il testo del senato non tiene conto dei principi stabiliti dalla Corte costituzionale nella sen- tenza 1/2014, ed anzi ancor più se ne allontana.

Quanto alla rappresentatività e al voto eguale, il 40% invece del 37% di soglia per il premio di maggioranza lascia un megapremio del 15%. E in ogni caso è decisiva l’introduzione del ballottaggio. La sentenza 1/2014 aveva inteso fulminare la possibilità — si badi, non la certezza — che un ridotto con- senso nei voti si traducesse in una maggioranza assoluta di seggi. Dunque la domanda è: può ora accadere con l’Italicum ciò che poteva accadere con il Porcellum? Certamente sì, perché al ballottaggio si arriva senza soglia. Accedono le due liste più votate al di sotto del 40%, quale che sia la percentuale conseguita. Anche se, per esempio, fosse il 15 o 20%. E se per ipotesi tutti gli aventi diritto al voto confermassero nel ballottaggio la scelta fatta nel primo turno, quel 15 o 20% si tradurrebbe magicamente nel 55% dei seggi. Il tutto è aggravato dal premio alla singola lista e non alla coal- izione. Che il ballottaggio curi i difetti del Porcellum è un ingannevole gioco di specchi.

Quanto alla libertà degli elettori di scegliere i rappresentanti, non basta limitare il blocco ai capilista. Già rileva che sarebbero di fatto un’ampia maggioranza degli eletti. Ma ancor più conta che ogni elettore vota necessariamente anche il capolista. E se non lo vuole? Non può volere per una parte,
e disvolere per un’altra.

Il voto di tutti è inevitabilmente condizionato ex lege, e quindi per definizione non è libero. Con argomenti analoghi la Corte costituzionale richiede un quesito univoco, omogeneo e ispirato a una matrice razionalmente unitaria come requisito per l’ammissibilità del referendum abrogativo ex arti- colo 75 della Costituzione.

Le opposizioni hanno dunque motivo per la pregiudiziale, e possono chiedere il voto segreto. Può il governo alzare il muro della questione di fiducia?

Nel gennaio 2014 la Camera discuteva la legge elettorale. Partivano la scalata di Matteo Renzi
a Palazzo Chigi, ancora occupato da Enrico Letta, e la stagione del Nazareno. Sulla pregiudiziale
a prima firma Migliore (allora capogruppo di Sel, ora Pd) si votò a scrutinio segreto, su richiesta dello stesso Migliore (AC, 31.01.2014, p. 9–11). Nessuno parlò di fiducia. Un precedente si trova nel 1980, con la fiducia posta da Francesco Cossiga sulla reiezione della pregiudiziale di costituzionalità a un decreto legge (AC, 26.08.1980, p. 17291). Ancora oggi val la pena di leggere l’opinione contr- aria di Stefano Rodotà (p. 17293).

Ribadisco per la pregiudiziale la prevalenza della richiesta di voto segreto già argomentata su queste pagine in materia di legge elettorale. In ogni caso, la vicenda del 1980 non sarebbe un buon precedente, essendo il voto segreto per il regolamento di allora previsione di ordine generale, e non mirata a ipotesi tassative come è oggi. Proprio dalla tassatività dovrebbe venire un favor per la segretezza laddove richiesta. Del diverso contesto la presidenza dell’Assemblea, il cui primo dovere è garantire la libertà dell’istituzione parlamentare e non il successo del governo, deve tener conto.

E cosa è poi la questione di fiducia se non la richiesta di un voto per appello nominale? Se è così, scompare forse l’articolo 51.3 del regolamento della Camera, per cui «nel concorso di diverse richieste prevale quella di votazione per scrutinio segreto»?

Conclusivamente, tre punti. Il primo. Dal gennaio 2014 Renzi si è indebolito, pur essendo oggi pre- mier. Puntare tutto sul patto del Nazareno fu un errore che ora gli si riverbera contro. Il secondo. Il continuo ricatto — crisi, scioglimento anticipato — ci mostra come Renzi intende il parlamento e la politica in generale. Il terzo. Si conferma che Renzi vuole imporre, approfittando della scalata al partito e a Palazzo Chigi, istituzioni prive di largo consenso, e persino minoritarie. Come questo dia forza e stabilità al paese qualcuno ce lo deve spiegare. E non basterebbe a tal fine il regalo — per niente certo — allo stesso Matteo Renzi di qualche altro anno a Palazzo Chigi.

Molto dipende dai tremebondi esponenti della sinistra (?) Pd. È difficile capirli.

Ormai, il segretario ne ha dichiarato la morte politica, e la lettera è l’ultimo certificato. Cos’altro deve fare? Passarli nel catrame e nelle piume? Per il resto, tutto il mondo già pensa che — con eccezioni — barattano il paese e le istituzioni con qualche mese di scranno parlamentare o pochi centesimi di vitalizio. Uno scambio miserabile. Nessuno più compra la mistica della «ditta». Ma quale ditta, se un ex-segretario come Pier Luigi Bersani non viene nemmeno invitato alla festa dell’Unità, dove — come dichiara — sarebbe andato anche a piedi? Se non ritrovano qui e ora, nell’ultimo momento utile, una ragione di esistere e una dignità ormai personale prima che politica, al prossimo turno elettorale saranno comunque merce avariata. I servizi resi non ridanno una verginità politica perduta.

Una lettera del segretario come quella di ieri attesta che un partito è mera apparenza. Qualcuno dovrebbe spiegare a Renzi che il futuro del partito se l’è già giocato. E ha fatto tutto da solo.

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