Le preferenze: una via stretta ma necessaria per garantire la rappresentanza

di Domenico Gallo

La possibilità per gli elettori di indicare all’interno della lista votata la preferenza per uno o più candidati è stata, negli ultimi decenni, letteralmente demonizzata. A torto. Lo dimostra l’evolversi della situazione politica nel Paese. Questa strana crisi di governo, aperta per oscuri motivi e frutto del gioco d’azzardo del “padrone” di un nucleo di parlamentari determinante per la stabilità della maggioranza, è la spia del distacco siderale che ormai si è creato fra i bisogni dei cittadini e le dinamiche del Palazzo. A fronte di una situazione drammatica dal punto di vista sanitario, economico e sociale e all’esigenza di una robusta azione di governo che consenta al Paese di avviare un programma di ricostruzione e di rilancio dell’economia e dell’occupazione, assistiamo a un potere di veto dietro il quale si cela una furibonda lotta di potere. Sono anni che registriamo una crescente sfiducia dei cittadini nei partiti e nelle istituzioni politiche rappresentative. È un male oscuro che corrode la democrazia e incoraggia la crescita delle più disparate forme di populismo e di antipolitica. Adesso tocchiamo con mano quanto sia profonda e dannosa la crisi della rappresentanza. Può sembrare banale, ma al fondo di questa crisi c’è un peccato originale che riguarda proprio la selezione dei rappresentanti. Nel disegno costituzionale questo compito spetta a tutti i cittadini associati in partiti (art. 49). E il compito dei partiti è quello di selezionare una classe dirigente con il concorso inscindibile dei cittadini elettori. Ma con l’estinzione dei partiti politici come organizzazioni di massa e con l’introduzione di sistemi elettorali sempre più elitari, la composizione delle assemblee parlamentari è diventata dominio di ristrettissime oligarchie. Gli elettori non possono mettere becco nella scelta dei propri rappresentanti, né attraverso i canali di partito (che non esistono più), né attraverso le preferenze sulla scheda elettorale, non più consentite dal 1994. Di conseguenza i componenti delle assemblee elettive sono, in senso effettivo, non più rappresentanti del popolo, bensì rappresentanti del capo politico che li ha nominati, selezionandoli in base ai livelli di fedeltà alla propria persona. In questo modo è stato svuotato dal di dentro il principio cardine della rappresentanza scolpito nell’art. 67 della Costituzione: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Rappresentare la Nazione vuol dire che, almeno per quanto riguarda le scelte cruciali, ogni membro del Parlamento deve orientarsi anteponendo il bene del Paese (concepito attraverso il filtro della propria coscienza) alle logiche di appartenenza. La saldezza intorno al capo politico dimostrata dai gruppi parlamentari di Italia viva, a fronte del rischio di paralizzare il Paese e di spingerlo, attraverso le elezioni anticipate, nelle braccia della destra fascio-leghista, stride con il travaglio dimostrato dai gruppi parlamentari che si sono trovati a svolgere la funzione di ago della bilancia nel corso di analoghe crisi del passato. Nel marzo del 1995, a fronte di una grave crisi finanziaria, Berlusconi cercò di far cadere il Governo Dini per ottenere la rivincita attraverso le elezioni anticipate. Per la sinistra sorse un dilemma che il manifesto sintetizzò con il motto: «baciare il rospo?». Nei gruppi parlamentari di Rifondazione comunista ci fu una discussione accesa che portò alcuni dirigenti politici autorevoli come Sergio Garavini, Angelo Rossi, Rino Serri e altri a ribellarsi agli ordini di partito e a votare la fiducia mantenendo in piedi il Governo. Una situazione simile si ripresentò nell’ottobre del 1998, quando si verificò una seconda spaccatura nel gruppo parlamentare di Rifondazione che, peraltro, non riuscì ad evitare la caduta del governo Prodi e la nascita di un esecutivo più affidabile per la NATO che si preparava alla guerra nei Balcani. Oggi, a fronte di una crisi politica molto più grave di quelle del 1995 e del 1998, non si ha notizia di alcun travaglio nei gruppi parlamentari che hanno la delicata funzione di ago della bilancia: si obbedisce al capo e basta. Ed è rimasto famoso l’affondo di Mussolini, neo presidente del Consiglio, contro il Parlamento: «Potevo trasformare quest’Aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli». Oggi dobbiamo constatare con amarezza che, almeno in parte, le aule parlamentari si sono trasformate in un bivacco di manipoli di questo o quel capo politico, che assume le funzioni di un duce in miniatura. È questa logica che si deve spezzare se si vuole risanare la nostra democrazia. La questione centrale è il valore della rappresentanza. Per ripristinarla occorre agire sui meccanismi di selezione. A tal fine è necessario agire su due fronti: quello dei partiti e quello dei sistemi elettorali. Il metodo democratico deve valere per tutti i partiti che partecipano alla competizione elettorale: non possono essere consentite delle satrapie, ci vogliono delle regole minime che disciplinino la partecipazione degli iscritti, i congressi, il finanziamento, la formazione delle liste. I sistemi elettorali, poi, devono garantire l’eguaglianza dei cittadini nel voto sia “in entrata” che “in uscita” (e ciò significa ritorno al proporzionale), il pluralismo (e ciò significa che le eventuali soglie d’accesso devono essere molto basse) e la possibilità per gli elettori di concorrere con i partiti nella scelta del singolo rappresentante. Per questo non è più tollerabile il sistema delle liste bloccate, che assicura un privilegio nella scelta dei parlamentari non al partito-organizzazione di cittadini, ma a ristrette oligarchie, se non a una singola persona. Il sistema delle preferenze, che non può essere ristretto alla preferenza unica (il cui effetto è quello di atomizzare tutti coloro che sono candidati nella stessa lista), presenta certo molti inconvenienti, potendo dare spazio a gruppi di potere occulti (o addirittura a organizzazioni criminali) e ostacolare un ruolo costruttivo dei partiti, ma non esiste un sistema migliore per consentire ai cittadini di scegliere da chi vogliono essere rappresentati e per legare il percorso parlamentare del rappresentante alla comunità che lo ha scelto. Perché la libertà di scelta del cittadino elettore sia effettiva, inoltre, le liste non devono essere corte (il problema si pone in particolare al Senato, dove forse è preferibile un sistema uninominale proporzionale – v. articolo di Gaetano Azzariti, Per una nuova legge elettorale: il disegno di legge in discussione e le alternative) e devono garantire un certo pluralismo pur all’interno di ogni specifica proposta politica. La via è stretta ma di qui bisogna passare per elevare il livello qualitativo delle assemblee parlamentari e ricostruire il rapporto di fiducia fra il p