Pubblicato su Il Manifesto il 13 marzo 2016

A Roma, nel cinema Palazzo, si presentano – per l’avvio della raccolta a breve delle firme ex art. 75 Cost. i quesiti referendari per l’abrogazione (parziale) di leggi in vario modo fortemente volute dalla maggioranza di governo. Sono i referendum noti come «sociali»: scuola, acqua, trivellazioni e ambiente. Probabilmente, si aggiungeranno poi quesiti referendari sul lavoro (Jobs Act). È l’assalto alla Bastiglia? Il popolo contro Renzi? Certamente no. È la ricerca di nuovi equilibri nel sistema politico-istituzionale nel suo complesso.

Le scelte di governo, le prassi e le innovazioni legislative degli ultimi anni hanno reso la politica e le istituzioni sorde e indisponibili all’ascolto. L’azzeramento del rapporto con i corpi intermedi – sostanzialmente dissolti come i partiti, o sistematicamente messi nell’angolo come i sindacati – ha tolto a Palazzo Chigi sensori che erano essenziali per capire a fondo gli umori del paese. Un parlamento addomesticato e mutilato nella rappresentatività e nella legittimazione sostanziale non ha più fornito, se non in misura marginale, canali di comunicazione efficaci. Per il poco che ha tentato di farlo, è stato imbavagliato da forzature di prassi e regolamenti, da questioni di fiducia a raffica e minacce di crisi. La domanda sociale non giunge a Palazzo Chigi, viene rifiutata, o nel migliore dei casi non viene pienamente colta nella sua portata. Mediazioni possibili ed equilibrate vengono ignorate negli indirizzi politici e nella legislazione attuativa. Il referendum abrogativo, con tutti i suoi innegabili limiti. rimane ex post l’unico strumento di correzione e di ripristino di una partecipazione democratica effettiva.

Questo è il senso di una stagione referendaria che probabilmente ha connotati nuovi rispetto al passato. In ogni caso, non può piacere a Palazzo Chigi. Possiamo esser certi che nelle stanze del governo si stia riflettendo su una strategia di contenimento, o di riduzione del danno. Già si muove in questo senso la mossa – prevedibilissima – di azzerare con qualcbe tratto di penna legislativa gran parte dei referendum No-Triv proposti dalle regioni. Nel medesimo senso va la scelta del 17 aprile per l’unico referendum rimasto, volta a massimizzare la probabilità che manchi il quorum necessario della metà più uno degli aventi diritto al voto. Ma siamo solo all’avvio, e la chiave della strategia antireferendaria di Palazzo Chigi è probabilmente nei referendum cd “istituzionali”, già in campo: riforma costituzionale (confermativo), Italicum (abrogativo).

Qual è lo scenario? Tutto parte dal referendum sulla riforma costituzionale. Renzi ha detto che la vittoria dei no lo spedirebbe a casa, con (probabile) scioglimento delle Camere e voto anticipato. Ma è pubblicità ingannevole. Davvero pensiamo che il giovanotto di Palazzo Chigi, fin qui abile e politicamente spregiudicato, sarebbe tanto sciocco da andare alle urne sulla scia di una pesante ed emblematica sconfitta? Che chiederebbe nuova legittimazione al popolo subito dopo la bocciatura? Difficile da credere. Piuttosto, se perde sulla riforma Renzi si inchioda alla poltrona e aspetta tempi migliori.

È invece plausibile il contrario: che Renzi andrebbe subito allo scioglimento anticipato e al voto in caso di vittoria dei sì sulla nuova Costituzione. Sull’onda del successo, e non della sconfitta. Per di

più, si andrebbe a votare con l’Italicum, già vigente, e con la riforma costituzionale appena entrata

in vigore. E quindi il premier eletto si troverebbe in una posizione blindata dalle nuove istituzioni. Ma nello scenario indicato cosa accade dei referendum sociali che ora si avviano? Se Renzi perde sul referendum costituzionale la legislatura continua e si vota sui quesiti nel 2017. Se vince, la legislatura si interrompe per lo scioglimento anticipato, si va a nuove elezioni nel 2017, e i referendum sono automaticamente spostati, per la legge 352/1970, al 2018.

Il passare del tempo gioca contro l’appello al popolo sovrano. Quanti che ora sono pronti a lottare nel frattempo si saranno stancati, assuefatti, piegati a un nuovo conformismo? Quante normette ad hoc potranno aggirare questo o quel quesito? E se mai qualcosa andasse male, il parlamento dell’Italicum sarebbe pronto a porre rimedio, ancor più del parlamento del Porcellum che ha di nuovo privatizzato l’acqua dopo la grande vittoria referendaria del 2011.

Ecco perché è politicamente utile, ed anzi necessario, battersi per i referendum istituzionali insieme a quelli “sociali”. Ora, nell’ottobre 2016, un no per fermare la controriforma della Costituzione, e nel 2017 un “sì” ai quesiti – già presentati – volti a correggere l’Italicum. E per entrambi la raccolta delle firme unitamente a quella per i quesiti sociali. Tutto si tiene.

Bisogna avere lambizione con I referendum di riportare il paese a una democrazia moderna e partecipata. Per questo, e per risultati non effimeri o di mera testimonianza, non basta lottare contro singole leggi. Le cattive leggi cui oggi si indirizzano i quesiti referendari vengono da una cattiva politica e da cattive istituzioni. La politica e le istituzioni che si prefigurano per domani sarebbero peggiori. E sarebbero fatalmente peggiori anche le leggi.