Il progetto di Premierato Meloni-Casellati: una minaccia per la democrazia costituzionale
Di Mauro Volpi
Il 3 novembre il Consiglio dei ministri ha approvato un Ddl costituzionale sull’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio, presentato dal Meloni e Casellati al Senato il 15 novembre (AS n. 935), che confeziona un pasticcio all’italiana pieno di anomalie e che avrebbe come effetto lo smantellamento della Costituzione. Innanzitutto l’elezione popolare del Primo ministro non è prevista nelle democrazie, che ritengono di non dover dare una legittimazione eccessiva al capo della maggioranza. Ma c’è di peggio: non viene indicata la maggioranza necessaria per l’elezione né viene posto un limite alla rieleggibilità, come avviene in tutte le Costituzioni che prevedono l’elezione popolare del Presidente della Repubblica. Quindi una successiva legge ordinaria, approvata dall’attuale maggioranza politica, potrebbe stabilire una maggioranza inferiore a quella assoluta dei votanti, con la conseguenza che il capo del Governo potrebbe di fatto essere eletto da una minoranza anche esigua del corpo elettorale, e rendere possibile la rielezione indefinita.
L’elezione del Presidente del Consiglio avviene congiuntamente a quella dei parlamentari con un premio di maggioranza del 55% dei seggi alle liste e ai candidati a lui collegati. Qui vi sono profili di incostituzionalità per violazione di principi costituzionali supremi. La mancata indicazione di una soglia minima di voti per l’attribuzione del premio, come ha chiarito la Corte costituzionale fin dal 2014 quando ha bocciato il premio previsto nel Porcellum di Calderoli, contrasta con i principi di rappresentatività e di eguaglianza del voto. L’elezione congiunta, che non esiste negli Stati democratici a elezione diretta del capo dell’esecutivo i quali prevedono talvolta l’elezione contemporanea, ma sempre separata e quindi l’eventualità che la maggioranza parlamentare non corrisponda a quella che ha eletto il Presidente, viola il principio della separazione dei poteri e della indipendenza del Parlamento, organo costituzionale titolare di prerogative fondamentali, che avrebbe una composizione determinata dal voto dato al Presidente del Consiglio e quindi si troverebbe fin dal momento genetico in uno stato di subordinazione nei suoi confronti. Infine viene violata anche la libertà dell’elettore, che non potrebbe esprimere un voto differenziato al candidato-Presidente del Consiglio e a una lista o coalizione a lui non collegata. Infine la costituzionalizzazione del premio di maggioranza costituisce una novità assoluta nella storia costituzionale italiana e non esiste negli ordinamenti democratici che lo prevedono (come la Grecia). L’abbandono della decisione dell’Assemblea costituente di non costituzionalizzare il sistema elettorale comporta che in futuro il suo cambiamento richiederebbe una legge costituzionale. E sono stati evidenti gli effetti negativi che il premio di maggioranza ha avuto nel contesto italiano, stimolando la formazione di coalizioni ampie ed eterogenee utili per vincere e che si dividono quando accedono al Governo.
Il ddl determina uno squilibrio tra i poteri. Sono nettamente ridimensionati i poteri di intermediazione politica del Presidente della Repubblica, il quale si limita a conferire l’incarico al Presidente del Consiglio eletto o al suo eventuale sostituto, ma senza nominarlo, e a nominare i ministri su sua proposta. Ora, è evidente che il Presidente del Consiglio eletto dal popolo ha una legittimazione ben più forte di quella del Capo dello Stato, eletto dal Parlamento e dai delegati regionali, e quindi può condizionare l’esercizio di tutti i suoi poteri di garanzia e di controllo. Diventa un atto dovuto anche lo scioglimento delle Camere quando il Governo non ottenga la fiducia iniziale e in tutti i casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante. Il Parlamento, succube fin dal momento della sua elezione, può respingere la mozione di fiducia ma se lo fa per due volte di seguito viene sciolto automaticamente. Se approva una mozione di sfiducia, può trovarsi a dover votare la fiducia sotto la spada di Damocle dello scioglimento al Presidente del Consiglio confermato nella carica, un vero e proprio schiaffo nei confronti della maggioranza parlamentare che l’ha sfiduciato, o a un suo sostituto proveniente dalla maggioranza originaria.
L’unica previsione relativa al Parlamento non riguarda il rafforzamento dei suoi poteri, indispensabile alla luce dello stato di subordinazione nei confronti del Governo che di fatto si è impadronito del potere legislativo, ma l’abrogazione della nomina dei senatori a vita, e quindi l’eliminazione di un potere del Presidente della Repubblica. La motivazione secondo la quale l’istituto potrebbe pregiudicare al Senato la maggioranza scaturita dal voto è inconsistente dal momento che il numero massimo di senatori a vita è stato fissato a cinque dalla legge costituzionale n. 1 del 2020. Evidentemente non è gradita la ratio che ha spinto l’Assemblea costituente, la quale intendeva valorizzare l’apporto delle conoscenze e del prestigio di personalità “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, personalità che non sono evidentemente di gradimento del centro-destra.
La disposizione più anomala è la cosiddetta “norma antiribaltone” che pretende di irrigidire la maggioranza consentendo la sostituzione del Premier eletto dal popolo per una sola volta nella legislatura. Alla fine è stata esclusa l’ipotesi, prevista nella riforma Berlusconi del 2005, che per la fiducia al nuovo capo del Governo valessero solo i voti dei parlamentari favorevoli a quella originaria, che era palesemente incostituzionale per violazione dei principi dell’eguaglianza del voto dei parlamentari e del divieto di mandato imperativo. Ne deriva quindi che la maggioranza può cambiare almeno in parte con perdite e aggiunte di parlamentari. L’unico limite è che il parlamentare sostituto dell’eletto dal popolo dia attuazione all’indirizzo politico e al programma sui quali era stata data la fiducia originaria, un limite risibile alla luce dei cambiamenti che si verificano nel corso della legislatura di cui il governo Meloni è la riprova vivente su vari terreni (anche su quello della riforma costituzionale visto che il programma elettorale del centro-destra prevedeva l’elezione popolare del Presidente della Repubblica). Infine la sostituzione parlamentare del Presidente del Consiglio eletto dal popolo consente a una componente della maggioranza di ricattare il Presidente del Consiglio e di farlo cadere al fine di sostituirlo.
In definitiva il Premierato proposto dal Governo determinerebbe un accentramento del potere nell’esecutivo e nel suo capo e l’indebolimento del Parlamento e dei poteri di controllo e di garanzia, senza peraltro essere in grado di assicurare né la formazione di governi stabili e efficienti a causa delle divisioni interne alla maggioranza, peraltro legittimate dalla norma antiribaltone, né l’aumento della partecipazione, mortificata dalla limitazione della libertà del voto e dalla lesione con marchingegni artificiali della rappresentatività del Parlamento.
Il Premierato elettivo costituisce un evidente attacco alla Costituzione democratica e antifascista, anche grazie allo scambio indecente con l’autonomia differenziata. I due progetti hanno in comune lo sconvolgimento degli equilibri costituzionali: il Premierato tra i poteri statali e tra potere esecutivo e popolo, chiamato ogni cinque anni a investire un capo e poi escluso dalla possibilità di intervenire politicamente, l’autonomia differenziata tra territori e persone sottoposti a crescenti diseguaglianze. A essere messa in discussione è la democrazia costituzionale, che concepisce la Costituzione come limite del potere, garanzia del pluralismo sociale e politico, valorizzazione del ruolo svolto dal Parlamento e dai partiti e della costante partecipazione popolare.