La democrazia muore tra astensionismo e autonomia differenziata

Di Alfiero Grandi

17 febbraio 2023

La sconfitta clamorosa in Lazio e Lombardia, avvenuta nel solco della sciagurata divisione delle opposizioni che hanno “regalato” alle destre la vittoria nelle politiche del 25 settembre scorso, ora impone di fare i conti con un livello di astensione dal voto clamorosa in gran parte dell’opposizione (tre milioni). O si cambia, o gli elettori faranno scelte definitive.

Una democrazia senza partecipazione

La gravità della situazione va oltre l’avere perso le elezioni. È una svolta epocale. È un clamoroso sciopero dal voto, di tale gravità da confermare l’esistenza di un rischio crisi della democrazia italiana, forse ancora recuperabile, ma certo serissima.

La destra, appagata dalle vittorie, finge di essere al riparo dalla crisi, ma non è così: l’astensione (almeno un milione di elettrici ed elettori) ha colpito pure la maggioranza. Anche se, vista la voragine nell’opposizione, il suo risultato letto in valore percentuale e non assoluto è sembrato illusoriamente consolatorio.

L’astensione di quasi i due terzi dei cittadini pone un problema enorme, cioè se può esistere una democrazia senza la sua qualità fondamentale: la partecipazione. Le opposizioni hanno il dovere di esaminare e reagire a questa situazione, rifuggendo dalla deriva di Calenda, che arriva ad attribuire la responsabilità dell’astensione agli elettori anziché a sé stesso.

È un errore reagire a questa sconfitta epocale partendo dalle ragioni delle singole componenti politiche. Vorrebbe dire restare nel solco delle divisioni che hanno portato alla sconfitta, quando invece la gravità della situazione riguarda tutti e quindi la riflessione deve essere d’insieme, sulle ragioni e sulle soluzioni.

Il virus dell’autonomia differenziata

Partiamo dalla Costituzione. Con leggerezza ed approssimazione la Costituzione è diventata terreno di scorrerie, di transazione politica, di modifiche pasticciate o sbagliate, con il risultato che i “moderni costituenti” hanno spesso rovinato i limpidi testi dei padri costituenti. Il centro sinistra ha sbagliato quando ha modificato il Titolo V nel 2001, sia perché lo ha fatto con una ristretta maggioranza, sia perchè ha ottenuto il bel risultato di portare alla Corte costituzionale oltre duemiladuecento contenziosi sull’attribuzione dei poteri tra Regioni e Stato.

Oggi è in campo la mina dell’autonomia regionale differenziata, figlia del nuovo Titolo V, che ha scatenato gli appetiti di alcune regioni ricche del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna), che oggi trovano in Calderoli l’interprete che punta a strappare poteri e soldi per le aree più ricche, mentre per gli altri resterà l’invarianza dei saldi pubblici. Il riequilibrio solidale può attendere.

Lep vanno adottati (se ne parla da vent’anni), ma dalla loro approvazione non dipende un obbligo di autonomia regionale differenziata, semmai di garantire che i diritti fondamentali di tutti i cittadini siano effettivamente gli stessi in qualunque parte d’Italia e soprattutto siano esigibili. Anche se sarebbe meglio parlare di prestazioni uniformi, non solo essenziali, certamente non minime.

Ci sono altri aspetti discutibili nell’autonomia regionale differenziata. L’istruzione non può essere regionalizzata, la sanità deve ridiventare veramente nazionale. L’energia è oggi un problema enorme, mondiale, parte essenziale della transizione ecologica: che senso ha dividere l’energia per regione (laddove, addirittura, occorrerebbe un piano europeo), oppure dividere le grandi vie di comunicazione stradali, ferroviarie e via dicendo? Così per ambiente e lavoro.

Non a caso Bonomi, Presidente di Confindustria, ha consigliato di andarci piano, anche perché è indispensabile un mercato nazionale, europeo. Che c’entra l’autonomia regionale differenziata? È solo l’ambizione di potere dei gruppi dirigenti regionali.

Una Costituzione da attuare

La Lega potrebbe ottenere questo scalpo per forza d’inerzia e per uno scambio politico interno alla maggioranza, visto che l’astensione ha minato seriamente anche la credibilità delle Regioni. È accaduto così anche col taglio dei parlamentari preteso da Di Maio per i 5 Stelle e accettato dal Pd, ai tempi del Conte 2, mentre i democratici avrebbero dovuto contrastare questa scelta che portava un ulteriore serio colpo al ruolo del Parlamento, un tassello fondamentale della democrazia.

Quando si arriva perfino a costringere il Parlamento a votare per negare il suo stesso ruolo vuol dire che il livello di guardia è superato. Con buona pace di chi si illuse che sarebbe arrivata in cambio una nuova legge elettorale, questa svolta non è mai arrivata e oggi abbiamo delle Camere ridotte nella loro autorevolezza ai minimi termini e elette nel modo peggiore, scelte dall’alto dai capi-partito e senza alcuna capacità di rappresentanza della volontà degli elettori.

Certo, la peggiore modifica della Costituzione in assoluto, voluta da Renzi, è stata bocciata il 4 dicembre 2016, ma il Pd non ha mai fatto i conti con il renzismo e le sue derive e solo dopo queste sconfitte epocali si è arrivati a qualcosa di simile ad un dibattito politico.

Questo per confermare che la Costituzione resta il punto di fondo con cui misurarsi. È un dibattito che non può essere sequestrato nei singoli partiti, ma che deve essere affrontato da tutti e nell’insieme, altrimenti resteremo nel solco degli errori epocali compiuti. Occorre con chiarezza mettere in campo una posizione che dica cosa si vuol fare della Costituzione, che andrebbe semplicemente difesa ed attuata con rigore.

Non siamo di fronte a modifiche puntuali, sempre possibili, ma a riscritture di senso e di prospettiva. L’autonomia regionale differenziata, ad esempio, scardina principi costituzionali di fondo e andrebbe vincolata con una riscrittura degli articoli 116.3 e 117, come propone la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare del Cdc su cui stiamo raccogliendo le firme per togliere a Calderoli gli spazi che lo hanno incoraggiato ad esagerare.

Anche il presidenzialismo scardinerebbe una parte decisiva della Costituzione trasformando il Presidente della Repubblica, che oggi ha un ruolo di garanzia e rappresenta l’unità nazionale, nel capo della fazione elettorale vincente. Eppure il presidenzialismo Usa non ha dato buona prova con un dualismo esasperato che ha spaccato il paese. Nemmeno quello francese ha dato risultati esaltanti, visto che Macron sta emarginando il parlamento. Nell’elezione diretta del Presidente l’elettore si illude di decidere, ma in realtà delega per cinque anni, per di più in presenza di un parlamento che non lo rappresenta.

Per non parlare della Giustizia e dell’autonomia della magistratura, che sono nel mirino della maggioranza. Affrontiamo come è indispensabile le macerie lasciate dalle sconfitte e sulla base di una seria autocritica ridefiniamo i presupposti di fondo della democrazia che l’opposizione propone, ma si faccia rapidamente, ingaggiando le battaglie politiche necessarie per respingere gli stravolgimenti della Costituzione e rilanciandone l’attuazione, ricostruendo un ruolo centrale del Parlamento nelle scelte che riguardano le persone reali.