La rottura del vaso di Pandora

di Alfonso Gianni

La prima settimana di marzo potrebbe rivelarsi decisiva per aspetti assai rilevanti che concernono il futuro dell’Unione europea. Mercoledì 3 marzo Bruxelles dovrà fornire le “linee guida su come e quando normalizzare la sorveglianza sui bilanci pubblici”. Questo avrà un’immediata ripercussione sull’orientamento dei singoli governi per la scrittura dei Def di aprile. Intanto se ne parlerà nelle riunioni dell’Eurogruppo e dell’Ecofin previste per il 15 e 16 marzo. A maggio poi ci sarà la decisione definitiva su quando riattivare il Patto di stabilità e crescita fin qui congelato a causa della crisi pandemico-economica.  Come è noto attorno a questa cruciale questione è in corso da tempo uno scontro aperto tra i “falchi” e le “colombe” della Ue. Ma la novità è che tale contrasto non riguarda più soltanto la data del rientro in vigore del Patto, ma, cosa ben più importante, la natura e il mantenimento del medesimo.

Stando al discorso tenuto dal Commissario all’Economia Paolo Gentiloni, nell’ambito del Fiscal board della Commissione europea di fine febbraio, se da un lato – come aveva detto Draghi nel suo intervento programmatico alle Camere – bisogna distinguere negli aiuti le imprese redditizie da quelle che non lo sono, per le quali “dovremo garantire un’uscita ordinata” considerando prioritaria “la gestione delle conseguenze sociali” (per fugare i dubbi su un approccio  troppo cinico a un tema così socialmente esplosivo); dall’altro lato “quando si tratta di sostegno fiscale nella congiuntura attuale, i rischi di fare troppo poco superano i rischi di fare troppo”.

Ed è quest’ultima la parte più interessante del suo discorso. Gentiloni infatti non esclude modifiche legislative sulle regole che governano il debito. Non va bene mantenere, ha affermato, “una regola rigorosa sul debito” che “potrebbe portare a un aggiustamento drastico, prociclico e autolesionista”. Il Commissario all’Economia non esclude una vera e propria “riforma legislativa”, quindi non solo interpretativa delle regole stesse. Se il Sole24Ore appare più sfumato nel riferire su questo aspetto, L’HuffPost e soprattutto la Repubblica attribuiscono a quelle parole di Gentiloni l’intenzione di “modificare il Six Pack, il pacchetto introdotto dopo la cisi del 2008 per imporre austerità ai paesi mediterranei, che rappresenta la base giuridica del Fiscal Compact”. Se così fosse le conseguenze sarebbero rilevanti poiché il Fiscal Compact, pur restando in vigore come trattato internazionale intergovernativo, non affonderebbe più le sue radici nel diritto comunitario, perderebbe quindi il suo status di mantra inviolabile.

Ma di quali regole si tratta? Per effetto di tre regolamenti approvati in via definitiva nel novembre 2011 nell’ambito del pacchetto complessivo di sei atti legislativi (il six pack, appunto), è stata introdotta una più rigorosa applicazione del Patto di Stabilità e Crescita. In particolare, si stabilisce:

  1. l’obbligo per gli Stati membri di convergere verso l’obiettivo il pareggio di bilancio con un miglioramento annuale dei saldi pari ad almeno lo 0,5%;
  2. l’obbligo per i Paesi il cui debito supera il 60% del Pil di adottare misure per ridurlo ad un ritmo soddisfacente, nella misura di almeno 1/20 della eccedenza rispetto alla soglia del 60%, calcolata nel corso degli ultimi tre anni;
  3. un semi-automatismo delle procedure per l’irrogazione delle sanzioni per i Paesi che violano le regole del Patto. Le sanzioni sono infatti  raccomandate dalla Commissione e si considerano approvate dal Consiglio, a meno che esso non la respinga con voto a maggioranza qualificata (“maggioranza inversa”) degli Stati dell’area euro (non si tiene conto del voto dello Stato interessato).

Ai Paesi che registrano un disavanzo eccessivo si applicherebbe un deposito non fruttifero pari allo 0,2% del Pil realizzato nell’anno precedente, convertito in ammenda in caso di non osservanza della raccomandazione di correggere il disavanzo eccessivo.

In sostanza crollerebbe uno dei pilastri considerati inamovibili del Trattato di Maastricht: i suoi famosi parametri, quelli considerati stupidi dallo stesso Romano Prodi qualche tempo fa. In effetti vale la pena di rammentare l’occasionalità della nascita di quei criteri, ovvero la totale mancanza di scientificità nella loro determinazione.

Dopo la vittoria alle elezioni del 1981 in Francia i socialisti guidati da Mitterand per mantenere le costose promesse elettorali avevano portato il deficit da 50 a 95 miliardi di franchi. Per “darsi una regolata” Mitterrand incaricò Pierre Bilger, a quel tempo vice direttore del dipartimento del Bilancio al ministero delle Finanze, di implementare una regola per evitare spese pubbliche all’impazzata. Bilger contattò due giovani esperti che avevano una formazione economica e matematica all’Ensae: Roland de Villepin, un cugino del futuro primo ministro Dominique de Villepin e Guy Abeille.

Sarà quest’ultimo ad elaborare il paletto del 3% sul Pil, nato però, per sua stessa ammissione, senza alcuna base scientifica: «Prendemmo in considerazione i 100 miliardi del deficit pubblico di allora. Corrispondevano al 2,6 % del Pil. Ci siamo detti: un 1% di deficit sarebbe troppo difficile e irraggiungibile. Il 2% metterebbe il governo sotto troppa pressione. Siamo così arrivati al 3%. Nasceva dalle circostanze, senza un’analisi teorica». Aggiunge ancora Abeille: «Abbiamo stabilito la cifra del 3% in meno di un’ora. È nata su un tavolo, senza alcuna riflessione teorica. Mitterrand aveva bisogno di una regola facile da opporre ai ministri che si presentavano nel suo ufficio a chiedere denaro […]. Avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? È un buon numero, un numero storico che fa pensare alla trinità».

Sperimentato in Francia questo paletto resse nel corso degli anni ’80, ad eccezione del 1986, anno in cui il governo spese a deficit di più. A dicembre 1991 quella regola fu promossa da “francese” ad “europea” ed entrò a pieno titolo nei parametri di Maastricht.

L’allora Ministro delle Finanze tedesco Theo Waigel ha svelato come Jean-Claude Trichet convinse la Germania a dare l’ok al paletto del 3%: «Il livello di indebitamento europeo all’inizio degli anni ’90 era pari a circa il 60% del Pil. La crescita nominale era circa il 5%, e l’inflazione al 2%. In questa situazione i debiti potevano crescere al massimo di un 3% all’anno, per non superare la soglia del 60%».

Ora quei parametri potrebbero essere cambiati o flessibilizzati, quello del 60% in particolare, in un’ottica di medio-lungo termine in modo da non avere effetti pro-ciclici sull’economia, impedendo quindi ogni chance di ripresa. Questo accadrebbe non solo per l’acclarata “stupidità” di quel parametro, ma sotto le necessità (“che aguzzano i cervelli” avrebbe detto il Manzoni) di una crescita così imponente del debito da rendere del tutto impossibile il rispetto del Fiscal Compact  e finanche la restituzione del debito post-covid, come ebbe giustamente a dire il presidente del parlamento europeo, David Sassoli.

Vien quasi da ridere, per non piangere, a ripensare alle discussioni accanite sulla necessità di costituzionalizzare il Fiscal Compact attraverso la modifica dell’art.81 Cost., come in effetti venne fatto con particolare responsabilità del Pd di allora. Ma del senno di poi, come si sa, sono piene le fosse.

Ma fin da ora, c’è da aspettarsi che contro queste modifiche legislative a livello europeo si scateni la reazione dei nostalgici del rigore. Essi temono che le modifiche al Patto possano aprire le porte a cambiamenti ancora più generali e profondi dei Trattati, un tempo considerati assolutamente non modificabili. Ovvero che si scoperchi il vaso di Pandora. Magari avvenisse ciò per davvero.