– Massimo Villone, 23.02.2021

Gianni Ferrara (1929-2021). Le discussioni nei primi anni 70, quando dissentiva con lo sbuffo
della pipa. Considerava il manifesto una parte di sé, la sola necessaria lettura quotidiana. Ci ha
insegnato molto anche con i suoi interventi su queste pagine
Gianni Ferrara ci ha lasciato. Ha avuto un ruolo importante in stagioni diverse nella vita del paese.
Nell’università, in politica, nelle istituzioni ha saputo insegnare e dare esempio. Molti ne serbano
ricordi incancellabili. Così è per me.

LO CONOBBI NEL 1967. Da poco laureato, mi avviavo a un Master presso la Facoltà di legge di
Harvard. Gli chiesi consiglio sugli studi da fare. Mi disse di lasciar perdere e di andare invece nella
Repubblica Federale tedesca, tipica meta degli studiosi di diritto pubblico dell’epoca. Due caratteri
spigolosi il suo e il mio si scontrarono e io, ai primi vagiti nei circoli accademici, osai contraddire il
maestro. Una cosa impensabile per l’università di quel tempo.
Ma inaspettatamente ne venne un rapporto tanto forte da durare più di cinquanta anni.
Da funzionario della camera dei deputati osservò il concreto svolgersi della forma di governo
parlamentare. Questa esperienza e l’impegno nel Partito socialista, culminato nel ruolo di capo di
gabinetto di Francesco De Martino vicepresidente del consiglio, lo resero attento alla interazione
immediata e ineludibile tra la politica e le istituzioni, tra il fatto e il diritto. Il tutto poggiava su una
solida base culturale non solo giuridica, estesa anche alla filosofia e all’economia.
Ne sono venuti studi mai solo teorici. I suoi scritti mostrano la norma come elemento sì primario, ma
nell’ambito di un mosaico complesso e in continua evoluzione.
Come suo assistente nella Facoltà giuridica napoletana nei primi anni Settanta avevo occasione di
discutere con lui, tra lezioni, seminari, esami, e qualche corsa in stazione per prendere l’ultimo treno.
Talvolta gli contestavo con un po’ di malizia che il suo approccio era, a ben vedere, più vicino agli
studiosi di rito angloamericano che ai tedeschi. Uno sbuffo della pipa che fumava all’epoca
riassumeva il diniego.
Il Midas e l’ascesa di Craxi segnarono uno spartiacque nella sua vita. Il suo rapporto con la politica
era assorbente e passionale, refrattario a mediazioni per interesse personale.
Il nuovo Partito socialista non poteva essere la sua casa. Lo capivo bene. La mia tradizione familiare
e la stima per De Martino, già mio professore di Storia del diritto romano, avevano fino ad allora
portato anche me, pur senza tessera, vicino a quel partito. Ma non si poteva ignorare il mutamento
genetico in atto.
Gianni apprezzò molto che lasciassi cadere un invito ad entrare nel circolo craxiano. Avviò allora il
percorso che lo vide successivamente eletto nella IX legislatura come deputato nella Sinistra
indipendente, e nella X nel gruppo Pci (poi Pds).

IN POLITICA E NEGLI STUDI fu in ogni momento coerente con la sua fede nella perdurante
validità della Costituzione, nella necessità della sua attuazione, nella centralità del parlamento, nel
ruolo insostituibile dei partiti.
Sono i fondamenti che la sinistra non ha saputo nel tempo difendere. Una scelta che Gianni ha
sempre censurato nelle sue riflessioni, dalla legge elettorale alle riforme praticate o tentate.
Aveva conosciuto i grandi leader protagonisti della nascita della Repubblica. Per tutti aveva rispetto,
pur marcando talvolta un dissenso. Giudicava invece severamente non pochi delle generazioni
successive.
In qualche caso, la passione che metteva in politica lo portava a valutazioni forse ingenerose. In
alcuni momenti ha sospettato anche me di intelligenza con il nemico, quando ero in parlamento
Una volta, dopo una iniziativa presso l’Istituto di studi filosofici di Gerardo Marotta, mi voltò le
spalle e se ne andò senza una parola. Si ricredette quando non entrai nel Pd. Ne abbiamo poi sorriso
insieme.
Considerava il manifesto una parte di sé. Con la fine dell’Unità, la sola necessaria lettura quotidiana.
Ci ha insegnato molto da queste pagine.
Il più grande complimento l’ho avuto da lui quando, avendolo sollecitato a scrivere di più sul
giornale, mi rispose che non era necessario perché lo facevo io, e bene.
Ho chiesto molto spesso la sua opinione sui miei articoli. Sono stati importanti per me gli
apprezzamenti, e i rarissimi dissensi.
Addio, Gianni. Io perdo un fratello maggiore, a me vicino nella vita. Molti di noi perdono un grande
compagno e amico, lucido e appassionato nell’analisi, nelle valutazioni, nelle proposte.
Tutti perdiamo uno spirito libero.