Alfonso Gianni (il manifesto 14 marzo 2020)
Qual “voce dal sén fuggita” l’improvvida dichiarazione di Christine Lagarde sulla indisponibilità ad intervenire sull’andamento degli spread aveva letteralmente terremotato i mercati finanziari del mondo intero. Durante il suo discorso il differenziale Btp/Bund era rimbalzato di settanta punti e più; la Borsa di Milano conosceva la seduta peggiore di tutti i tempi, mentre per Wall Street la giornata dell’altro ieri era solo un poco meno nera di quel terribile lunedì del 19 ottobre 1987; il petrolio continuava la propria corsa verso il basso e persino l’oro perdeva punti. A dimostrazione dell’estremo nervosismo e della volatilità dei mercati già provati dalle conseguenze economiche della pandemia in corso. Tanto è vero che il quadro ci appare addirittura ribaltato. Ieri Piazza Affari ha chiuso con un + 7,1%, mentre lo spread è sceso attorno ai 240 punti. Più che le energiche parole di Mattarella, con un intervento non usuale contro le “mosse che possono ostacolare” l’azione del nostro paese in grave difficoltà, e più che la parziale retromarcia della Lagarde, ha potuto l’annuncio di quello che la Commissione europea si appresta a proporre al Consiglio europeo. Tecnicamente si tratta di una sospensione degli impegni di aggiustamento dei conti pubblici purché la sostenibilità del bilancio a medio termine non ne sia compromessa. Nei fatti si tratta di una sospensione del Patto di Stabilità. Una misura che si accompagnerebbe al fatto che i 120 miliardi di euro che la Bce ha dichiarato disponibili per ulteriori acquisti di titoli di Stato, potranno essere impiegati anche per proteggere i nostri Btp senza il castrante vincolo della capital key, cioè la regola che imponel’acquisto di titoli di stato proporzionalmente alla entità della quota di capitale della Bce detenuta dai singoli stati. Essendo a sua volta proporzionata a Pil e popolazione la nostra quota era recentemente scesa. Il che faceva sì che dell’acquisto di titoli traevano vantaggio più i paesi che non ne avevano bisogno che quelli in maggiore difficoltà. Secondo una logica solo apparentemente paradossale e che andrebbe radicalmente e definitivamente capovolta e non solo una tantum. Già questo, se venisse confermato, potrebbe contare di più che non la mancata riduzione di dieci centesimi di punto di tassi che già si muovono in negativo, che tanto ha fatto indispettire i mercati. D’altro canto – lo stesso Draghi lo aveva affermato più volte alla fine del suo mandato – i margini per una manovra puramente monetaria sono ormai molto ridotti. Non escono più conigli da quel cappello. Ma l’invocata politica fiscale degli stati, ovvero di bilancio, per rilanciare l’economia non può avvenire se permangono i vincoli e i parametri del Patto di Stabilità. Farli saltare e farlo in modo definitivo, non solo occasionale, è quindi decisivo. La sospensione del Patto di Stabilità non significa ancora la revisione delfamigerato parametro del 3% nel rapporto deficit/Pil (e del suo gemello: il 60% nel rapporto fra debito e Pil) inventati in una notte di decenni fa (9 giugno 1981) da un funzionario del governo francese ai tempi di Mitterand. Ma è la dimostrazione sul campo che quei parametri non hanno alcuna validità né base scientifica, che sono puramente arbitrari, una palla al piede che stoppa il cammino dell’unità europea. Lo si vede bene nei momenti di crisi, quale quella attuale, proprio quando la cassetta degli attrezzi dovrebbe dotarci di tutte le strumentazioni necessarie. Quando si vuole dimostrare la validità di una teoria scientifica, si sa che bisogna porla in condizione di stress. Se non tiene vuole dire che non vale. Ed è questo il caso. D’altro canto senza liquidare quei parametri il nostro paese, a causa anche delle famigerate clausole di salvaguardia per evitare l’aumento dell’Iva, si troverebbe ad affrontare una manovra da più di 50 miliardi. Vedremo che ne dirà la riunione dell’Eurogruppo, prevista per lunedì prossimo, che intanto ha già riposto nel cassetto la firma politica delle modifiche apportate al Mes, che di fatto provocano una divisione fra paesi forti e deboli dell’Europa, esponendo i secondi in modo esplicito al pericolo di default. La crisi sanitaria ed economica potrebbe diventare l’occasione per avviare un radicale cambiamento.