La tensione ai confini dell’Ucraina è estrema. Gli Stati Uniti con la Nato e buona parte dell’Europa stanno valutando l’invio di truppe. L’ex impero russo è a sua volta schierato. Il conflitto, in verità, è già in atto, avendo varcato il limite di guardia. Mutatis mutandis, la situazione assomiglia a quella del 1962 con la crisi dei missili a Cuba. Tuttavia, allora il mondo occidentale si schierò a fianco di Washington contro l’ex Unione sovietica per la minaccia di armi così potenti collocate a pochi chilometri dal suolo americano. Oggi, invece, che eserciti di rito atlantico facciano mostra dell’implicita violenza dei corpi belligeranti sembra ovvio e naturale. Anzi, guai a dire alcunché: l’aria serena dell’Ovest non va turbata. E la guerra fredda non è mai davvero finita.
Accade, poi, che di fronte all’urgenza quirinalizia dominante nei titoli dei telegiornali, solo negli ultimi giorni la vicenda dell’Ucraina abbia trovato maggiore spazio. La scorsa settimana il tema sembrava quasi un’esclusiva del Tg3 della Rai e de la7. Ora tiene banco anche altrove (nel Tg1, nel Tg5, nel Tg2).
La quantità è aumentata, ma la qualità proprio no. La televisione sembra diventata perennemente embedded, quasi una voce monocorde con scarso contraddittorio. Bisogna salvare l’Ucraina, si sente ripetere. Ci mancherebbe. Ma non è necessario prima di ogni discorso offrire ai cittadini-utenti un quadro geo-politico preciso e approfondito?
Televisione significa etimologicamente vedere lontano. Si vede, invece, solo ciò che si ritiene utile per evitare che magari ci si interroghi su cosa significhi stare nella Nato o su quale sia la linea estera di Bruxelles o, persino, dell’Italia.
In verità, la capacità del video di entrare nell’immaginario delle persone non basta a spiegare i rischi. L’attuale aggiornata modalità manipolativa è in grado di passare ad una soglia superiore: la costruzione del desiderio della guerra, di una guerra purchessia.
Non c’è neppure bisogno di ricorrere ai classici per comprendere gli effetti nefasti di una costante induzione nel linguaggio dell’informazione delle antiche polarità del buono e del cattivo, dell’amico e del nemico. Bianchi e rossi.
Dobbiamo girare canale e cercare ogni volta che scoppia un caso internazionale le frequenze di Al Jazeera o di altre fonti internazionali? La televisione italiana continua ad avere un inguaribile peccato di chiusura e provincialità. Non sarà un caso se è finita in soffitta l’ipotesi di uno specifico canale in lingua inglese, volto a rompere un po’ di tabù in una concorrenza globale dove l’eccesso di zelo non paga.
Tira una brutta aria per la pace, come afferma costantemente (e inascoltato) il Papa di Roma Francesco. La terza conflagrazione mondiale è in corso, pur se a pezzi.
Non dimentichiamo mai, poi, che l’Italia si fa forza nelle esportazioni dell’industria delle armi, un inferno in cui tutte le vacche sono nere. Quando si spara e ci sono morti o feriti, qualcuno si arricchisce. Oltre agli strumenti offensivi classici o moderni sono entrati in scena ulteriori inquietanti protagonisti: il conflitto informatico a suon di hacker e di spionaggio dei e con i metadati, il ricorso massivo ai robot e all’intelligenza artificiale. La realtà ha da tempo, infatti, superato la fantascienza.
Ecco perché la televisione generalista, che mantiene comunque una funzione fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica, ha un potere enorme e delicatissimo nel costruire il discorso e l’argomentazione su territori che escono dal controllo della vita quotidiana.
Stiamo parlando di un capitolo cruciale della crisi democratica, non solo di opinabili servizi unilaterali o molto faziosi.
L’informazione non deve rispondere alla Casa Bianca o alla Nato, bensì agli articoli 11 e 21della nostra Costituzione: il ripudio della guerra e la libertà di espressione senza condizionamenti.